Un mezzo ducato e una moneta-medaglia in argento rinvenuti a Campobasso, tra le macerie della Porta Maggiore della città demolita nel 1835

 

di Vittorio Mancini | Lo stemma civico di Campobasso (Fig. 1) si caratterizza per la presenza di sei torri d’argento merlate, ordinate in due file sovrapposte da tre, con le due mediane più grandi, su scudo ovato di rosso, filettato d’oro e caricato di piccola corona ducale d’oro gemmata in capo; lo scudo è poi a sua volta accollato ad un cartiglio partito di rosso e d’azzurro, contornato d’oro e timbrato da corona di principe.

Campobasso, sei torri per sei porte

Le sei torri, emblema del capoluogo del Molise, ricordano quelle che si trovavano accanto alle porte che un tempo garantivano accesso alla città (Fig. 2) e cioè: Porta della Piazza (o Maggiore o San Leonardo), Porta Mancina (o Santa Cristina), Porta Nuova (o San Nicola), Porta San Paolo, Porta Santa Maria della Croce, Porta Chiaia (o Sant’Antonio Abate).

Di queste la principale, nonché la più grande e bella, era la Porta della Piazza che si trovava, originariamente, nei pressi della chiesa di San Leonardo (Fig. 3), nelle cui adiacenze si svolgeva anche il mercato e dove vennero poste la dogana, nonché i fondaci del sale, della farina e, più tardi, del tabacco. Nel 1476, a seguito dell’estendersi dell’abitato, fu spostata più avanti in modo da inglobare al suo interno i nuovi edifici e le attività che in essi si svolgevano. Nel 1727, quando titolare del feudo era il Duca Mario Carafa, fu ricostruita per essere poi definitivamente demolita nel 1835.

Nel presente articolo ci si occuperà di un episodio accaduto proprio in occasione dell’abbattimento perché, come si vedrà, c’è anche un risvolto di interesse numismatico. Ma prima sarà opportuno riportare ancora qualche notizia storica su questa porta, citando naturalmente le rispettive fonti.

Figg. 1-2 | A sinistra, lo stemma civico di Campobasso con le sei torri; a destra, la collocazione delle sei porte d’accesso alla città antica

L’abbattimento della Porta della Piazza

Antonino Mancini, nel volume Campobasso nel 1732 origine e nome della citta, le chiese, il castello (Campobasso, Petrucciani, 1942), scrive: “Era più grande e più bella delle altre: a ciascuno dei due lati stava una catena la quale serviva per tenervi assicurato e esposto al pubblico ludibrio chi si fosse reso colpevole di gravi delitti” (p. 13 in nota). La stessa informazione è riportata, citando Mancini, anche da Eduardo Di Iorio in Campobasso itinerari di storia e di arte (Campobasso, Arti Grafiche La Regione, 1978) a p. 37.

Alcune notizie significative, tanto in merito all’utilizzo che si faceva della porta e delle sue vicinanze, quanto relativamente alle diverse denominazioni che le furono nel tempo attribuite, sono invece ricavabili dal volume di Uberto D’Andrea Strade piazze e chiese nella Campobasso degli anni 1506-1806 (Casamari, Tipografia dell’Abbazia, 1975), seconda parte dell’opera più ampia in quattro tomi Campobasso dai tempi del Viceregno all’eversione del feudalesimo: 1506-1806.

D’Andrea, che fonda i suoi scritti su ricerche d’archivio, fa riferimento a scritture notarili dalle quali ricava numerose informazioni. E così, a proposito della porta qui in esame, si apprende dalle pp. 59 e 60 del suo volume: che in rogiti del 1579 e del 1581 era designata “con il nome di Porta di S. Leonardo o del Mercato”; che in una scrittura notarile del 1771 si faceva riferimento ad essa come “Porta Maggiore della Piazza”; che “secondo un’antica consuetudine, quando in Campobasso doveva riunirsi un pubblico consiglio tale adunanza generale[…] veniva tenuta (forse nei mesi estivi) presso la Porta della Piazza” (scrittura del 1726); che “era luogo di affissione di manifesti” (protocollo del 1764); che le vendite all’asta di beni assoggettati a sequestro venivano effettuate dal giurato della Corte locale “nel luogo solito della detta porta della piazza” (scrittura del 1771); che una volta “spostato il pubblico orologio dalla Chiesa di S. Leonardo sopra la Porta della Piazza”, l’Università o Comune di Campobasso aveva promesso l’onorario di 16 ducati a semestre a beneficio della persona designata a caricare e mantenere in funzione l’orologio predetto (atto del 1801).

Fig. 3 | La chiesa di San Leonardo in un’incisione di fine XIX secolo e come appare oggi

Sempre D’Andrea appunta, a p. 192 del suo volume, che quando la “Porta campobassana detta della Piazza” venne ricostruita nel 1727, come se si fosse stati ancora ai tempi medievali, “non le vennero tolti i battenti” e che anzi questi ultimi, un secolo dopo, cioè nel 1831 e poco prima della demolizione della porta stessa, furono “oggetto di un apprezzo” causato da una proposta d’acquisto, tanto che “il ferro ed il legno che li componevano vennero valutati rispettivamente 15 e 20 ducati”.

Ma la più importante delle notizie che il D’Andrea riferisce, almeno per i fini che interessano nel presente articolo, è quella contenuta nella nota 255 della stessa p. 192 appena ricordata e che è del tenore seguente: “Quando nel 1835 venne demolita la Porta della Piazza, fu trovata tra le macerie una cassetta con due monete d’argento ed un foglio che ricordava l’anno della ricostruzione: il 1727”. Subito dopo l’autore precisa che la sua fonte, per quanto appena riportato, è la Busta 293 delle carte di Intendenza conservate presso l’Archivio di Stato di Campobasso.

Fu trovata tra le macerie una cassetta…

D’Andrea assegna al solo documento cartaceo contenuto nella cassetta la funzione di ricordare l’anno della ricostruzione. Tuttavia i cultori di numismatica, e in particolare coloro che prestano attenzione ai vari usi non monetari delle monete, sanno ben riconoscere che anche l’interramento dei due nominali effettuato in occasione della ricostruzione della principale porta di accesso al nucleo antico della città di Campobasso assolveva al medesimo scopo: garantire una certificazione cronologica ad un avvenimento; nel caso di specie alla riedificazione della porta in questione.

Una certificazione, verrebbe da aggiungere, che anche se meno precisa di quella su carta (le “monete” non necessariamente avevano la stessa data dell’avvenimento, ma erano testimonianza del circolante dell’epoca e della successione al potere), dava però maggiore garanzia di durevolezza negli anni a venire rispetto al documento scritto. Tanto è vero che, come si vedrà appresso, l’atto sepolto al momento della ricostruzione verrà ritrovato 108 anni dopo danneggiato a causa dell’umidità e si riuscirà a ricostruirne in parte il contenuto – come scrissero all’epoca – solo grazie “a una certa chimica”. Nessuna difficoltà invece nella “lettura” delle impronte e delle legende delle due monete.

Una lettera illuminante dall’Archivio di Stato

Tra le carte contenute nella busta ricordata da D’Andrea, ancora oggi in Archivio, oltre alla ricostruzione, fatta nel 1835, dell’atto del 1727 già ricordato, è presente anche un verbale redatto alcuni giorni dopo la demolizione della porta e indirizzato al sindaco di Campobasso per dar conto del rinvenimento tra le macerie. Di tale verbale si presenta qui la trascrizione (per comodità di visualizzazione, il simbolo | sostituisce gli “a capo”), non senza aver ringraziato la dottoressa Maria Iarossi dell’Università del Molise per la collaborazione nel reperimento e nell’interpretazione del documento:

“22 luglio 1835 | Al Sindaco di Campobasso | Nella mattina del giorno 15 stante gli operai addetti alla demolizione della così detta porta della piazza, nel rimuovere i due primi pezzi impegnati della gamba destra, tra essi rinvennero un cassettino di piombo, che tosto venne tra le mani del can.co D. Alfonso FIlipponi. | Egli lo aprì, e vi rinvenne due monete di argento, ed un foglio con de’ suggelli a ceralacca, ma senza osservarvi alcuno scritto, meno la traccia di qualche parola. | Impegnato il Can.co a conoscere lo scritto di questo foglio, vi è pervenuto con l’ajuto di certa chimica composiz.., e ne ha data la copia. | Rimetto a lei con. d.a copia l’autografo stesso mal ridotto dalla umidità, con frammento di un suggello grande di ceralacca, ed il cassettino di piombo, onde faccia il tutto conservare diligente nell’Ufizio comunale. | Le due monete d’argento le saranno consegnate dal Canonico Filipponi, cui dalle spese imprevedute farà pagare carlini sette, che egli regalò agli operai. sud.ti. | Queste due monete saranno conservate unitamente agli altri oggetti. | Firma (non leggibile) | Nel cassettino di piombo si rinvenne ancora un pezzo di Carlini cinque coniato nel 1715 colla leggenda: Car: VI: D. G. Rom. Impe: Hisp: Utri: Sici: Rex. | Ed un’altra piccola moneta di carlini 2, coniata in Napoli nel 1702 o 1712, colla leggenda: | Philippus V. Hispaniarum, et Utriusque Sic: Rex. | Vi si vede scolpito in mezzo un uomo a cavallo. Nel rovescio la Dea abbondanza, colla Leggenda Adventui Principis felicissimo”

Fig. 4 | Tre delle porte antiche della cinta muraria di Campobasso: da sinistra Posta Mancina, Porta San Paolo e Porta Sant’Antonio

Gli scopritori della cassetta rinvennero dunque in essa un foglio scarsamente leggibile, anche se poi riuscirono a ricostruirne il testo. Dalla trascrizione che ne fecero si ricava con certezza la data degli avvenimenti (Anno a nativitate Domini nri Jesu Xti millesimo septingentesimo vigesimo septimo) così come sono ben chiari i riferimenti al sovrano (Regnante Carolo Sexto, Fig. 5), al titolare del feudo (sub paterno ac soavi dominio Excellentissimi Ducis Jelsi. D. Marii Carafa) e ad altri notabili presenti sul posto quali, tra gli altri, il Mastro Giurato Michele Ginetti, il Caput regiminis Bartolomeo Mascilli, il notaio Antonio D’Avvocati.

Nella cassetta però, lo si è visto dal verbale, le autorità che presidiarono all’avvio della ricostruzione vollero far inserire anche “due monete d’argento” riferibili al sovrano citato nel documento, Carlo VI d’Asburgo, e al suo predecessore Filippo V di Spagna. Una sorta di “capsula del tempo”, si direbbe oggi, perfettamente in linea con la plurisecolare usanza di “certificare”, anche con tondelli coniati, il verificarsi di determinati eventi.

Nel verbale si comunica al sindaco che le monete gli sarebbero state consegnate così come era già avvenuto per il resto del materiale affinché se ne facesse conservazione “diligente nell’Uffizio comunale”. Non è dato sapere se e quando ciò sia effettivamente avvenuto tuttavia, grazie agli elementi contenuti nella descrizione dei due pezzi, è possibile tentare la loro identificazione e mostrare quindi in questa sede, anche se a distanza di quasi due secoli dal loro rinvenimento, cosa poterono osservare gli operai che demolirono definitivamente la Porta Maggiore o della Piazza nel 1835.

Fig. 5 | Mezzo ducato in argento del tipo di quello rinvenuto nel 1835 e definito nel documento “pezzo da Carlini 5 coniato nel 1715”

Un mezzo ducato e una moneta-medaglia

Quello che viene definito “pezzo da Carlini 5 coniato nel 1715” è certamente un mezzo ducato che recava al dritto il busto, laureato, rivolto a destra, dell’imperatore con la legenda • CAR • VI • DG • ROM • IMPE • mentre sul rovescio era impresso lo stemma coronato, con cartocci, e ornato anche col toson d’oro con, sotto, la data 1715; ai lati dello stemma la legenda • HISP •VTRI • SICI • REX •. Il peso di circa 11 grammi era distribuito nei 33 mm di diametro del modulo.

L’altro esemplare argenteo citato nel documento trascritto viene definito “piccola moneta di carlini 2”. In realtà, vista la descrizione, è assai più probabile che si tratti di una moneta-medaglia il cui valore era pari a 12 grana del diametro di 23 mm e con peso variabile nei vari esemplari conosciuti ma mediamente sui 3,60-3,70 grammi, che presentava al dritto non “un uomo”, ma il sovrano a cavallo andante a sinistra, con la data 1702 in esergo, e intorno la legenda PHILIPPVS V HISPANIARVM ET VTRIVSQ SIC REX; nel rovescio, invece, recava non “la Dea abbondanza”, come scrissero in modo erroneo nel verbale, tratti probabilmente in inganno dalla presenza di una cornucopia nella mano sinistra di quella che, invece, era una rappresentazione di Partenope, galeata e seduta, col Vesuvio sullo sfondo e in basso lo stemma di Napoli, e con ancora la scritta NEAP in esergo e la legenda ADVENTVI PRINCIPIS FELICISSIMO, così come invece trascritto nel documento del 1835 (Fig. 6).

In realtà la medesima impronta e la stessa legenda sono presenti anche nella medaglia ricordata da Tommaso Siciliano nel lavoro Memorie Metalliche delle Due Sicilie 1600-1735, pubblicato sul fascicolo del 1916 del Bollettino del Circolo Numismatico Napoletano. In quello scritto l’autore illustra, a p. 70, un esemplare in bronzo presente nella sua collezione ma ricorda l’avvenuta coniazione anche di esemplari in argento e in oro. Tuttavia quelle menzionate dal Siciliano sono medaglie di grande modulo (mm 59), mentre nel verbale del ritrovamento di Campobasso quella presente nella cassettina estratta dalle macerie della porta abbattuta viene definita “piccola moneta”.

Per quanto le sia stato attribuito, in quella occasione, un valore errato (2 carlini anziché 12 grana), l’aggettivo utilizzato con riferimento alle dimensioni fa propendere più per l’identificazione con la medaglia descritta in precedenza che non con quella, simile ma assai più grande, ricordata da Tommaso Siciliano.

Fig. 6 | La moneta-medaglia di Filippo V con “la dea Abbondanza”, in realtà Partenope con elmo, cornucopia e lancia e il Vesuvio sullo sfondo

Perchè questi esemplari, e non altri?

Identificati i due tondelli, resterebbe da provare a capire perché la scelta sia caduta proprio su essi e non su altre tipologie.  In merito al mezzo ducato di Carlo VI non c’è molto da dire: era una bella moneta che, tra impronta e legende, dava conto del sovrano regnante al momento della riedificazione; dunque la sua funzione di “certificazione cronologica” durevole dell’avvenimento appare palese.

Più enigmatica, invece, la presenza della moneta-medaglia di Filippo V. Qui nasce il sospetto che la scelta contenesse in sé qualche elemento “propiziatorio”, cosa peraltro non estranea ai riti di fondazione che coinvolgevano monete. In quest’ottica, allora, ad avere rilievo sarebbe non tanto il sovrano cui la coniazione faceva riferimento, quanto la presenza, nell’impronta del rovescio, della figura muliebre che sostiene la cornucopia. Soprattutto se si associa tale particolare con altre parole contenute nel documento sbiadito, ma in qualche modo comunque interpretato dagli scopritori dell’epoca.

In esso infatti si poteva leggere che, dopo aver ordinato di costruire ed erigere la porta (“[…] hanc ianuam erigi ac construi iussimus”), le autorità locali auspicavano che quella che erano lieti di aprire fosse anche la porta “omnium felicitatum tam temporalium quam spiritualium”, vale a dire di ogni bene sia temporale che spirituale per i cittadini. Con il particolare, forse non trascurabile, che ad essere effigiata sulla medaglia era Partenope e che la porta in questione dava accesso proprio alla zona del fondaco della farina e dei magazzini del grano. E Campobasso, a quei tempi, era considerata uno dei granai del Regno e della capitale in particolare.

 

Nota dell’autore

Il presente articolo è dedicato alla memoria di Giorgio Palmieri, troppo presto sottratto all’smicizia di chi qui scrive e di quanti ne apprezzavano le doti di fine conoscitore e attento studioso, tra le molte altre cose, anche di Campobasso e della sua storia.