Apologia del biondo metallo: “L’oro riduce schiavo chi è libero, e liberi gli schiavi”

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Petrarca, la numismatica e le monete del suo tempo: apologia del biondo metallo in una lettera poco nota

 

a cura della redazione | E’ poco conosciuta, al punto che quasi nessuno storico dell’economia ne ha rilevata né evidenziata l’esistenza, una lettera, databile tra il 1354 ed il 1363 che Francesco Petrarca (1304-1374) indirizzò all’amico Neri Morando, segretario della Repubblica Veneta al quale ricordava quanto la potenza dell’oro avesse, da sempre, influenzato la storia del genere umano.

Medaglia in bronzo del 1874 (Ae, mm 72) incisa da Adolfo Pieroni e celebrativa del V centenario della nascita di Francesco Petrarca autore, fra l'altro, di un'apologia del biondo metallo, l'oro
Medaglia in bronzo del 1874 (Ae, mm 72) incisa da Adolfo Pieroni e celebrativa del V centenario della nascita di Francesco Petrarca autore, fra l’altro, di un’apologia del biondo metallo, l’oro

La lettera, raccolta dallo stesso Petrarca (Epistulae de Rerum Familiarum, lib. XX, ep. I) così recita, in una traduzione dal latino del 1866: “Trovo giustissimo quanto sulla potenza dell’oro giustamente discorri. Ché a buon diritto diceva Orazio: ‘Si trafora tra l’armi e tra le schiere / E, più potente che del ciel saetta / Spezza l’oro le pietre’ […] o per noi, buon amico, tutto oggi è d’oro: d’oro le aste, gli scudi, i ceppi, le corone: di quello ci adorniamo, ci lasciam legare con quello, per lui siamo a vicenda poveri e ricchi, felici e miseri.

L’oro riduce schiavo chi è libero, e liberi gli schiavi, assolve i rei, gli innocenti condanna, fa i muti facondi, riduce ogni eloquenza al silenzio. L’oro sciolse a Metello la lingua contro Cesare, ammutolito per l’oro tacque Demostene. Per esso principi i servi, e servi i principi, audaci i timidi, paurosi gli arditi, solleciti i pigri, inerti gli operosi divennero.

Banchieri toscani in un affresco della Chiesa di san Franacesco a Prato (1395): si notino il libro dei conti, le monete, la bilancia per verificarne la bontà
Banchieri toscani in un affresco della Chiesa di san Franacesco a Prato (1395): si notino il libro dei conti, le monete, la bilancia per verificarne la bontà

Arma l’oro gli inermi, e fa cader di mano le spade agli armati, doma i duci più invitti, opprime i popoli più valorosi, e i potenti eserciti disperde, e un poco d’oro a lunghe guerre pon fine; ferma le paci, e fermate le dirompe, asciuga i fiumi, feconda i campi, sconvolge i mari, adegua ai piani i monti, rompe ogni chiusa, assalta città, espugna fortezze, abbatte castelli: nè v’ha luogo, per forte e per munito che sia, a cui carico d’oro ascender non possa il più pigro giumento.

Ed è pur vero che le amicizie dei grandi, le illustri clientele, e gli splendidi matrimoni procaccia: per virtù sua, infatti, vengono gli uomini in fama di nobili, di valorosi, di sapienti, di belli, e (mirabile a dirsi) perfin di santi; e solo i ricchi oggimai son nelle città creduti dabbene, a essi soli quella fede che ai poveri si nega avvien che si presti e vero del tutto si fa quel detto del satirico: ‘Alla stregua dell’or che nello scrigno serba, è la fede che a ciascun si presta’.

Insomma (per quanto a malincuore, è forza pure che io lo dica), non potente soltanto, ma onnipotente è l’oro, e tutto su questa terra avviene che ceda alla sua forza: a lui la fede, la pietà, la pudicizia, le virtù tutte sommesse, a lui soggetta la gloria, al bagliore della sua luce (oh! nostra vergogna) vinto pur esso il raggio divino che il Celeste Creatore negli animi nostri accese.

Alla violenza di questo metallo soccombono pontefici e re, e non che gli uomini, cedono a esso, siccome dicono, anche gli dèi, nè v’ha cosa che incontro a lui regga e resista”.

Da quanto sopra emerge che il Petrarca era un accorto ed attento estimatore di quella monetazione aurea che, copiosa, circolava ai suoi tempi, oltre che di quella dei secoli precedenti che raccoglieva, come sappiamo, con zelo e precisione tanto che il filosofo tedesco Oswald Spengler (ne: Der untergang des abenlandes, cioè Il tramonto dell’Occidente, p. 49, anno 1918) così scriveva: “Già Petrarca raccolse antichità, monete, manoscritti, con una pietas ed un fervore propri soltanto della nostra civiltà, come un uomo dalla sensibilità storica capace di riportare lo sguardo su mondi lontani e assetato di lontananze che, in fondo, restò estraneo al tempo suo. L’anima del collezionista la si comprende solo in base al suo rapporto col tempo”.

Il poeta (e numismatico) Francesco Petrarca
Il poeta (e numismatico) Francesco Petrarca

Petrarca era già, dunque, un numismatico in senso moderno ma c’è di più, perché egli volle raccogliere le sue epistole e tramandarle ai posteri perché non si perdessero in quanto sapeva (come annota il Lessico Universale, Treccani, p. 571) che “le sue lettere erano ricercate al punto che parecchie di esse non giungevano ai destinatari perché intercettate dai suoi ammiratori; dai suoi contemporanei e per tutto il XIV secolo fu ammirato come elegantissimo scrittore di latino e come iniziatore di quel grande moto spirituale e culturale che poi si chiamò Umanesimo”.

Del Petrarca appassionato di numismatica, tuttavia, poco o nulla sappiamo, ma è pur certo che al piacere di raccogliere – come già sottolineato – le monete del suo tempo, il grande letterato dovette pur unire l’interesse per quelle del passato, per lui più o meno recente, ad iniziare da quelle battute in elettro che costituì, nei regni della Lidia, la più antica lega monetata.

Sappiamo, peraltro, che i re di Persia si riservavano il diritto esclusivo di monetare l’oro, delegando alle singole città il privilegio “minore” di coniare l’argento. Come non dimenticare (Erodoto, IV, 166) che Dario fece giustiziare Ariando, governatore dell’Egitto, per aver questi fatto monete troppo buone, a scapito di quelle d’oro?

Lidia, statere di Creso risalente al periodo 561-546 a.C. (elettro, g 8,03)
Lidia, statere di Creso risalente al periodo 561-546 a.C. (elettro, g 8,03)

Non per nulla, presso gli antichi Egizi l’oro aveva funzione di un vero e proprio status symbol, dato che l’aristocrazia se ne serviva per adornarsi di collane, bracciali, anelli (moltissimi dei quali sono stati rinvenuti all’interno delle sepolture). E’ anche da ricordare che in età faraonica, durante la dinastia dei Lagidi, si riteneva che la carne delle divinità fosse d’oro e le ossa fossero d’argento o di elettro.

Ad incoraggiare la diffusione della lavorazione del biondo metallo furono, soprattutto, le ricche miniere che, tra il 18° ed il 25° parallelo di latitudine nord, si rivelarono le più grandi del mondo allora conosciuto: nel settentrione l’oro di Copto, nel meridione quello di Cush e, nella zona centrale del paese, l’oro di Wawat.

A Roma la prima emissione di monete d’oro si ebbe al tempo della Prima guerra punica (264-241 a.C.) ma non fu che ai tempi di Augusto che la monetazione aurea entrò ampiamente in circolazione divenendo simbolo di forza e stabilità economica tanto che, secoli dopo, sotto il regno di Costantino, la restaurata moneta aurea iniziò a chiamarsi solidus.

Medaglia di Angelo Grilli del 1974 (Ae, mm 60) per il VI centenario petrarchesco
Medaglia di Angelo Grilli del 1974 (Ae, mm 60) per il VI centenario petrarchesco

La brama d’oro dei Romani, del resto, era sempre stata presente se solo si pensa che, quando Cesare effettuò la spedizione in Britannia, grande delusione venne dalla notizia che poco oro – necessario per rimpinguare il tesoro di Stato – poté essere là raccolto.

In quanto agli antichi scudi d’oro, di cui il Petrarca accenna nella lettera al Morando sopra riportata, così scrisse Tito Livio (Ab Urbe condita, XXXVIII, 35): “Gli edili curuli […] fecero pure porre nel Campidoglio dodici scudi d’oro con i proventi delle ammende”; sull’importanza di far pagare in oro le tasse,quindi, il Codice Teodosiano (prima metà del V secolo) precisava (nella traduzione dal latino):

L’imperatore Teodosio a Massimino. Con decreto universale e perpetuo stabiliamo che da ora in poi in nessun modo il tuo ufficio accetti che qualcuno paghi i propri tributi in moneta di rame o, a meno che lo richieda una pubblica necessità, in natura. Comunque il proprietario deve pagare piuttosto in natura, se è necessario alla pubblica utilità, o in oro, che, al cambio fissato, vale cento libbre di rame”.

Tornado all’epoca di Petrarca, non va dimenticato come il potente Comune di Firenze si stesse progressivamente trasformando in Signoria, attraverso il favore popolare che – guarda caso – proprio una potente e ricchissima famiglia di banchieri stava acquistando nella città la quale, negli stessi decenni, si era impadronita di Arezzo (città natale del poeta) ed aveva consolidato il proprio predominio su tutta la Toscana.

Predomino politico, certo, ma anche economico e monetario (quest’ultimo, esteso ben oltre i confini dello Stato) se solo si pensa che, proprio nel XIV secolo, la diffusione del fiorino stava favorendo l’egemonia fiorentina sui mercati del Mediterraneo come in quelli dell’Europa continentale, riuscendo a scacciare definitivamente l’ormai svilita moneta bizantina.

Fiorino d'oro di Firenze del periodo 1252-1303 (Au, g 3,52), con simbolo corno (maestro di zecca sconosciuto)
Fiorino d’oro di Firenze del periodo 1252-1303 (Au, g 3,52), con simbolo corno (maestro di zecca sconosciuto)

Tuttavia, l’oro dà e l’oro toglie, come ebbero modo di sperimentare le grandi banche fiorentine, divenute vere e proprie compagnie capitalistiche, quando, dopo aver prestato enormi capitali a numerosi sovrani e alla stessa tesoreria pontificia, finirono per fallire (era il 1345) in seguito al rifiuto opposto da vari re di restituire i prestiti ricevuti.

Giovanni Villani, annalista del XIV secolo (in: Cronica, VI), così narra la nascita del fiorino, la più famosa moneta d’oro del medio evo: “A Firenze, la banche erano ottanta. La moneta d’oro che si cambiava era di trecentocinquantamila fiorini d’oro all’anno e delle altre monete ventimila libbre […] per la qualcosa i mercatanti di Firenze per onore del Comune, ordinaro col popolo e Comune che si battesse moneta d’oro in Firenze; ed eglino promisono di fornire la moneta d’oro, che in prima si battea moneta d’ariento da danari dodici l’uno. Ed allora si cominciò la buona moneta d’oro fine di ventiquattro carati, che si chiamarono fiorini d’oro e contatasi l’uno venti soldi […] i quali fiorini, gli otto pesarono una oncia, e dall’uno lato era l’impronta del giglio e dall’altro il San Giovanni”.

Specchio fedele della prosperità raggiunta grazie all’oro dalla città di Firenze – una prosperità che, evidentemente, ispirò anche Petrarca nella sua lettera – sono infine le cronache del tempo; basti ricordare Bernardo Davanzati (in: Lezioni delle monete, ed. 1584, p. 443) quando afferma, con trasporto e stile quasi poetico: “[…] battemmo il fiorin dell’oro d’una dramma tutto fine, tanto piaciuta al mondo che ognun poscia volle fiorini battere e nominare”.