di Vittorio Mancini (seconda parte) | L’esercizio che si è voluto tentare nella prima parte di questo studio, per così dire “manipolando” le iscrizioni presenti su tante monete papali può apparire – e forse realmente è – un po’ forzato. Meno azzardato sembra, invece, sostenere che molti dei pontefici tra XVII e XVIII secolo siano stati i compilatori di una sorta di “codice”, alla composizione del quale ciascuno ha contribuito dettando alcune “norme”. Queste ultime, scritte non su carta o pergamena, bensì sul metallo delle monete, si sostanziano in raccomandazioni oppure in ammonimenti, a seconda che il loro contenuto si traduca, rispettivamente, in un invito ad un comportamento attivo o omissivo nei confronti del denaro; in altri termini a fare o non fare determinate cose.
Proprio perché si è utilizzata l’immagine del codice, se ne dà conto qui di seguito in un elenco, comprendente anche l’indicazione dei papi alla cui monetazione afferiscono i vari pezzi citati, partendo dalle legende che chiamano il fedele ad una condotta di tipo attivo.
In alto, Roma, Alessandro VII (1655-1667), mezzo grosso (mm 16). Al R/ TEMPERATO SPLENDEAT USV, in cinque righe. In basso, Ferrara, Clemente XI (1700-1721), Scudo d’argento 1709 A. IX (mm 42). Al R/ IN TESTIMONIA TVA ET NON IN AVARITIAM, in quattro righe. A destra, Alessandro VII (Fabio Chigi, 1655-1667)
- DIVES IN HVMILITATE, “il ricco (si glori) della sua umiltà”. Innocenzo XI, due scudi d’oro (o doppia); legenda tratta dalla Lettera di Giacomo (1, 10).
- TEMPERATO SPLENDEAT VSV, “risplenda (il denaro) con un uso moderato”. Alessandro VII, mezzo grosso. L’iscrizione, tratta da un verso delle Odi di Orazio (2, 2, 3), è la continuazione della legenda NVLLVS ARGENTO COLOR EST AVARIS già citata in precedenza da un testone di Innocenzo XIII, e bene esprime il contrasto tra il tener nascosta la propria ricchezza o il farla rilucere attraverso un suo giusto impiego.
- REDDE PROXIMO IN TEMPORE SVO, “rendi al prossimo a suo tempo” (i denari avuti in prestito). Due monete e due metalli per questa sollecitazione che papa Clemente XI fa apporre su una doppia d’oro e su di un giulio.
- IN TESTIMONIA TVA ET NON IN AVARITIAM, “verso le tue leggi e non verso l’avarizia”. Come la precedente, anche questa legenda afferisce alla monetazione di Clemente XI che, per la zecca di Ferrara, la fa apporre su uno scudo d’argento[1]. È tratta da un Salmo (118 o 119, v. 36)[2] nel quale è preceduta dalle parole (rivolte al Signore): “inclina cor meum”, ossia “piega il mio cuore”.
- THESAVRIZATE IN COELIS, “accumulate tesori nei cieli”. Il versetto, tratto da una frase di Gesù riportata nel Vangelo di Matteo (6, 20), appare su un giulio di papa Clemente XIII (Carlo della Torre di Rezzonico, 1758-1769). È l’immediata continuazione di un altro invito fatto da Cristo (Matteo 6, 19) che costituisce, in questo elenco (vedi n. 6), il primo di quelli che, ai fini del presente lavoro, sono stati definiti “ammonimenti”.
- NOLITE THESAVRIZARE, “non tesaurizzate”. Innocenzo XI, testone.
- AVRI IMPERIO NE PARETO, “non obbedire al comando dell’oro”, Clemente XI, scudo d’oro.
A sinistra, Roma, Clemente XIII (1758-1769), Giulio 1761 (mm 25). Al R/ THESAVRIZATE IN COELIS, in quattro righe con la data. Al centro, Roma, Clemente XI (1700-1721). Scudo d’oro (mm 21). Al R/ AVRI IMPERIO NE PARITO (evidente errore per PARETO). A destra, Roma, Clemente XI (1700-1721), Giulio (mm 25). Al R/ NON CONCVPISCES ARGENTVM, in quattro righe
- NON AVRVM SED NOMEN, “non l’oro ma la reputazione”. Lo scudo di Clemente XI per Ferrara, sul quale campeggia tale espressione, è un chiaro avvertimento fatto dal papa a privilegiare l’essere stimati per il proprio buon nome piuttosto che per la ricchezza.
- NON CONCVPISCES ARGENTVM, “non bramerai il denaro”. Questo frammento di un versetto del Deuteronomio (7, 25) può apparire come naturale prosecuzione – quasi una conseguenza – dell’iscrizione precedente; anch’esso fa parte dell’insegnamento lasciato da papa Clemente XI che la fa apporre su cinque tipi variati di giulio.
- NOLI AMARE NE PERDAS, “non amare (il denaro) per non perdere” (la tua anima). L’ammonizione compare su un testone di Innocenzo XII e si ispira ad uno scritto di Sant’Agostino.[3]
- NOLI ANXIVS ESSE, “non ti angustiare (per il denaro)”. Anche in questo caso è un testone, emesso però a nome di Innocenzo XI, a riportare l’ennesimo avvertimento contro l’ansia da possesso di denaro.
- NOLI LABORARE VT DITERIS, “non ti affannare per arricchire”. Clemente XI trae dal Libro dei Proverbi (23, 4) questo versetto che occupa il campo di un giulio per sottolineare, ancora una volta, il concetto della futilità dell’atteggiamento di chi, in qualche misura, si “tormenta” pur di arricchire.
- SI AFFLVANT NOLITE COR APPONERE, “se affluiranno non date loro il cuore”. Soggetto della legenda proposta da papa Clemente XI su un giulio sono le ricchezze che, evidentemente, non devono diventare oggetto d’amore da parte di chi dovesse vederle comparire tra le proprie disponibilità. La fonte dalla quale è stata tratta questa raccomandazione è il Salmo 61 (v. 11) ed è presente, in forma ridotta, anche su altre due tipologie monetali: un grosso dello stesso Clemente XI, dove compare come NOLI COR APPONERE, e un testone di Innocenzo XI sul quale, invece, l’imperativo è impresso nella forma plurale NOLITE.
- NON SIBI SED ALIIS, “non per sé ma per gli altri”. L’iscrizione, che si trova su un mezzo scudo (mezza piastra) di Innocenzo XII, sovrasta la figura di un pellicano che si squarcia il petto per nutrire i suoi pulcini. Un tempo si riteneva erroneamente che questo palmipede avesse la capacità di nutrire o, addirittura, di resuscitare i suoi piccoli nutrendoli del proprio sangue. Per questo nella simbologia cristiana è stato spesso accostato allo stesso Cristo, in quanto segno di Colui che offre la propria vita per la salvezza di quelli che sono stati da Lui generati. Nella teologia medievale il pellicano rappresenta più esattamente Gesù che si lascia inchiodare alla croce, donando il suo sangue per la redenzione dell’umanità. Un simile accostamento è presente, ad esempio, nella Divina Commedia,[4] così come in una preghiera del Corpus Domini di Tommaso d’Aquino.[5] La moneta descritta fu emessa per ricordare la carità fatta dal papa ai poveri accolti nell’ospizio di San Michele e nel palazzo del Laterano; chiaro, perciò, il significato da attribuire all’insieme immagine-legenda: il denaro va speso per il bene altrui e non per il proprio.
A sinistra, Roma, Innocenzo XI (1676-1689), Testone (mm 33). Al R/ NOLI ANXIVS ESSE, in tre righe. In alto, Roma, Clemente XI (1700-1721), Giulio 1703 (mm 25). Al R/ SI AFFLVANT NOLITE COR APPONERE, in sei righe con la data.In basso, Roma, Innocenzo XII (1691-1700), Mezzo Scudo 1693 (mm 38). Al R/ NON SIBI SED ALIIS, disposta ad arco su pellicano che si squarcia il petto per alimentare i suoi piccoli; sulla destra la data. A destra, Clemente XII (Lorenzo Corsini, 1730-1740)
Si è scelto di chiudere l’insieme di norme in materia di comportamenti da tenere nei confronti della ricchezza – che si è voluto definire “codice” – con quest’ultimo invito presente sulla bella moneta appena illustrata, perché sembra fungere da naturale raccordo con quella che rappresenta la terza parte del presente lavoro e il completamento della “catechesi numismatica” in esame: l’esaltazione della carità e il conseguente incoraggiamento a praticarla costantemente.
INNI O INCITAMENTI ALLA CARITA’ | Nell’Antico Testamento l’elemosina costituisce prevalentemente un dovere religioso che finisce con l’assumere, in seconda battuta, una valenza sociale. Con l’insegnamento di Gesù, queste due funzioni vengono a coincidere perché attraverso la “carità” si persegue l’imitazione di Cristo e, contemporaneamente, si conferisce al denaro una doppia funzione salvifica: da una parte si liberano i bisognosi dalle loro necessità materiali e imminenti, dall’altra ci si prepara a godere, un giorno, dei frutti della ricompensa divina. In questa ottica, il denaro, se così impiegato, si trasforma per poveri e ricchi in sorgente di vita e perde quella caratteristica di essere generatore di ingiustizia, che gli deriva dal suo naturale distribuirsi in maniera non uniforme tra gli uomini.
Non a caso, dunque, nella monetazione in esame in questo lavoro, sono ravvisabili numerosi esempi di legende che si sostanziano in incitamenti alla – o esaltazione della – carità.
SERITE IN CARITATE, “seminate (o distribuite) in carità”. È l’invito espresso che papa Benedetto XIII fa apporre su un mezzo grosso.[6] Ma il suo insegnamento non finisce qui; egli, infatti, ricorda, facendolo scrivere su un giulio, che il denaro dato IN CARITATE MVLTIPLICABITVR, “per carità, si moltiplicherà”, mentre su un testone ripropone un versetto del Libro dei Proverbi (19, 17) già utilizzato in precedenza da Clemente XI su un nominale analogo: FOENERATVR DOMINO QVI MISERETVR PAVPERI, “fa un prestito al Signore chi ha compassione del povero”.
In proposito Gesù è stato molto esplicito. Nel racconto del giudizio finale Egli anticipa che separerà i giusti dagli iniqui, premiando i primi per avergli dato da mangiare e da bere, per averlo ospitato, vestito, e curato attraverso la carità fatta ai bisognosi: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25, 40). Si può perciò essere certi che il Signore non dimenticherà il suo essere in qualche modo “debitore” nei confronti di chi si è dimostrato caritatevole verso i poveri; questo è il senso del PRODERIT IN TEMPORE, “(la carità) gioverà a suo tempo”, che si può leggere su un grosso di Benedetto XIII, nonché del DELICTA OPERIT CARITAS, “la carità riscatta le colpe”, e del QVI MISERETVR PAVPERI BEATVS ERIT, “chi ha pietà del povero sarà beato”, che Clemente XI affida, rispettivamente, a un giulio e a un testone.
Dunque l’invito che il Maestro rivolge al cristiano, e che alcuni papi ribadiscono in moneta, è chiaro; così Innocenzo XII, prendendo in prestito le parole del profeta Daniele (4, 24) scrive su un giulio: PECCATA ELEEMOSYNIS REDIME, “riscatta i peccati con le elemosine”, mentre Benedetto XIII incoraggia il cristiano ricordandogli, con un mezzo grosso, PRO TE EXORABIT, (la carità) “pregherà per te”.
DA ET ACCIPE, “da’ e ricevi”. Questo doppio imperativo presente su un mezzo grosso di Clemente XI altro non fa se non ribadire l’idea che la carità arricchisce chi ne beneficia e anche chi la pratica. Già molti anni prima il papa Gregorio XIII (Ugo Buoncompagni, 1572-1585) aveva dedicato a questo concetto due belle monete, battute nella zecca di Ancona, sulle quali la legenda DAT ACCIPIT REDDIT, “dà, riceve e restituisce”, si accompagnava con la rappresentazione allegorica di questa forma superba di amore: la Carità con in braccio due bimbi e un terzo al fianco (scudo d’oro) oppure un bambino tra le braccia e due ai lati (giulio).[7]
San Paolo, che nella Prima Lettera ai Corinzi eleva alla Carità quello che è considerato il suo inno più bello (13, 1-13), suggerisce nella Seconda Lettera inviata alla stessa comunità (9, 7) di donare con gioia. Le sue parole sono state riprese da Alessandro VII, che su una doppia fa riportare: NON EX TRISTITIA AVT EX NECESSITATE, “non (dare) con tristezza o per forza” e su un grosso HILAREM DATOREM DILIGIT DEVS, “Dio ama chi dona con gioia”.
Il concetto di caritas, specialmente dopo il suo compimento con l’insegnamento e l’esempio di Gesù Cristo e la sua esatta definizione negli scritti del Nuovo Testamento, andrebbe inteso col significato generale e più ampio di amore del prossimo e di dono di sé. Non si può però negare che esso abbia anche una valenza specifica di attenzione e sostegno ai poveri e ai miseri, dato che questi ultimi hanno sempre goduto di particolare attenzione e predilezione da parte di Dio, come testimoniato in numerosi passi delle Sacre Scritture e come ribadito anche in moneta: il grosso di Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini, 1740-1758) sul quale si leggono le parole OCVLI EIVS IN PAVPEREM, “i suoi occhi rivolti al povero”, ne è una conferma.
HABETIS PAVPERES, “avete i poveri” (con voi). Questa frase, attribuita nel Vangelo di Matteo (cfr. 26, 11) a Gesù, è presente su un grosso di Clemente XII, quasi come promemoria per ricordare a tutti che, purtroppo, la povertà e il bisogno sono sempre presenti. Perciò non può che definirsi retto chi li ha a cuore. Due papi hanno voluto ricordare in moneta questo ultimo concetto espresso anche nel Libro dei Proverbi (29, 7): NOVIT IVSTVS CAVSAM PAVPERVM, “il giusto non ignora la causa dei poveri”, è infatti quanto si può leggere su uno scudo e su un grosso, rispettivamente, di Innocenzo XII e Benedetto XIV.
A sinistra in alto, Roma, Clemente XI (1700-1721), Giulio (mm 25). Al R/ DELICTA OPERIT CHARITAS, in tre righe. Al centro a sinistra, Roma, Innocenzo XII (1691-1700), Giulio 1699 (mm 26). Al R/ PECCATA ELEEMOSYNIS REDIME, in quattro righe con la data.In basso a sinistra, Roma, Alessandro VII (1655-1667), Grosso (mm 20). Al R/ HILAREM DATOREM DILIGIT DEVS. A destra in alto, Roma, Benedetto XIV (1740-1758), Grosso 1743 (mm 21). Al R/ OCVLI EIVS IN PAVPERI, in tre righe con la data.A destra in basso, Roma, Innocenzo XII (1691-1700), Mezzo grosso 1696 (mm 16). Al R/ DA PAVPERI, in tre righe con la data. A destra, Benedetto XIV (Prospero Lambertini, 1740-1758)
Non stupisce, quindi, la pressante serie di esortazioni a prestare attenzione ai miseri che il gruppo di pontefici in esame si preoccupò di pronunciare facendo parlare le proprie monete. DA PAVPERI, “da’ ai poveri” è la forma più sintetica e immediata di questi inviti che fanno apporre prima Innocenzo XII su un mezzo grosso, e poi Clemente XIII su un grosso[8], ma non è l’unica.
NE OBLIVISCARIS PAVPERVM, “non dimenticarti dei poveri”: è ancora Innocenzo XII a lasciare questa sollecitazione, in tal caso su un giulio. Sarà poi imitato dal successore Clemente XI, che la farà imprimere su un testone.
Alla monetazione di quest’ultimo pontefice appartengono anche un grosso e la sua metà con la scritta PAVPERI PORRIGE MANVM TVAM, “stendi la tua mano al povero”, versione integrale di una legenda presente in forma ridotta anche su altri nominali dello stesso papa, nonché di suoi tre successori[9].
Ad Innocenzo XII si deve la riproposizione in moneta di un frammento del Libro di Giobbe (5, 16) riportato su sei tipi variati di grosso che presentano la dicitura EGENO SPES, “speranza per il bisognoso” , nonché quella del versetto del Deuteronomio (15, 11) EGENO ET PAVPERI, “(porgi la mano) al bisognoso e al povero”, visibile su un testone. Su quest’ultima moneta compare anche una bellissima rappresentazione: una donna, con una fiamma sul capo, che avanza tenendo una cornucopia capovolta dalla quale cadono più monete. Come spiega Traina nel magistrale volume ricordato all’inizio di questo lavoro, la fiamma è tradizionalmente simbolo di illuminazione, purificazione e amore spirituale, mentre la cornucopia è emblema di abbondanza, speranza e carità.
Il mezzo grosso di Innocenzo XIII con IN EGENIS, “per i bisognosi” e il pezzo di valore doppio di Clemente XII con la scritta CVM EGENIS, “dalla parte dei poveri”, arricchiscono ulteriormente il panorama delle coniazioni di questo tipo.
BEATVS QVI INTELLIGIT SVPER EGENVM, “beato chi comprende i bisogni del povero”. L’iscrizione appena citata da un giulio di Innocenzo XIII ricorda che non soltanto occorre individuare i bisognosi, ma anche saper discernere esattamente quali siano le loro effettive necessità. Non v’è dubbio che, tra queste, quella del cibo sia primaria ed è proprio a tale specifico aspetto che sono dedicate le parole leggibili su tre grossi (a volte con varianti) di due diversi pontefici: IN CIBOS PAVPERVM, “per i cibi dei poveri” (Clemente XII), EDENT PAVPERES ET SATVRABVNTVR, “i poveri mangeranno e saranno saziati”, e VT ALAT EOS IN FAME, “perché dia da mangiare agli affamati” (Benedetto XIV).
Nel Vangelo di Luca è scritto PETENTI TRIBVE, “da’ a chi chiede” (6, 30), e, poco oltre, DATE ET DABITVR, “date e vi sarà dato” (6, 38). Entrambe le espressioni sono presenti pure su moneta: rispettivamente, su un mezzo grosso di Benedetto XIII e su un grosso di Clemente XI. Lette insieme, esse danno, ancora una volta, la certezza che la carità giova anche a chi la pratica e, soprattutto, che non lo impoverisce. La legenda QVI DAT PAVPERI NON INDIGEBIT, “chi dà al povero non andrà in rovina”, che Innocenzo XI pone su un giulio, può essere interpretata, allora, come una conferma di quella che si è voluta definire “doppia funzione salvifica” della carità stessa.
La conclusione di questo lungo percorso di “catechesi numismatica” è forse quella che si può leggere tanto su un testone che su una quadrupla di papa Clemente XI: A DEO ET PRO DEO, “da Dio e per Dio”. Quasi per dire che la ricchezza viene dal Signore ed è a Lui che deve ritornare, attraverso l’attenzione verso i bisognosi che, come riscontrabile nelle Scritture sia vetero che neotestamentarie, godono della Sua predilezione.
L’invito è che ognuno, riconoscendo la verità di quanto appena affermato, possa andare incontro al prossimo che si trova nel bisogno con le parole che Pietro rivolse ad uno storpio che chiedeva l’elemosina davanti al tempio di Gerusalemme (cfr. Atti, 3, 6), e che Innocenzo XI ha voluto fossero impresse su un suo testone: QVOD HABEO TIBI DO, “quello che ho lo do a te”.
In alto a sinistra, Roma, Clemente XI (1700-1721), Grosso (mm 21). Al R/ PAVPERI PORRIGE MANVM TVAM, in quattro righe.In basso a sinistra, Roma, Innocenzo XII (1691-1700), Testone 1694 (mm 33). Al R/ EGENO ET PAVPERI, attorno a donna che avanza con fiamma sul capo e cornucopia in mano dalla quale cadono monete; in esergo la data. In basso a destra, Roma, Benedetto XIV (1740-1758), Grosso (mm 21). Al R/ EDENT PAVPERES ET SATVRABVNTVR, in quattro righe.Al centro, Roma, Clemente XI (1700-1721), Testone (mm 33). Al R/ A DEO ET PRO DEO, intorno a donna con un bimbo in braccio, tra due bambini che versano monete da due cornucopie. A destra, Pio VII (Barnaba Chiaramonti, 1800-1823)
CONCLUSIONI | I pontefici più volte citati nel presente studio, in definitiva, si sono rivelati particolarmente sensibili e attenti ad istruire i fedeli sul tema della ricchezza e del suo auspicabile impiego “cristiano”. Essi hanno cercato di trasmettere questo loro magistero attraverso numerose monete sulle quali hanno impresso legende ad hoc, spesso tratte da brani delle Sacre Scritture, con l’evidente intento di sfruttare le capacità comunicative del denaro. In molti casi hanno fatto seguire alle parole i fatti, provvedendo direttamente essi stessi a importanti opere di carità.
Non sempre, tuttavia, è stato così ed è noto a tutti che in altri momenti la Cattedra di Pietro è stata occupata da veri e propri mascalzoni, tanto che la profonda corruzione morale e materiale che ha caratterizzato la Chiesa in lunghi periodi storici era paragonata, con disprezzo, alla purezza dei primi tempi.
Eppure, anche in fasi così buie, non si può non notare che una qualche forma “provvidenziale” abbia continuato ad operare, nonostante le malefatte di chi avrebbe dovuto distinguersi per tutt’altri comportamenti. Nel 1483, ad esempio, il cardinale Raffaele Riario, pronipote del papa allora in carica (Francesco della Rovere, Sisto IV, 1471-1484) iniziò a Roma i lavori per la costruzione dell’edificio che fu successivamente chiamato Palazzo della Cancelleria. Oltre che da un congruo prestito, egli aveva ottenuto i fondi per l’opera sottraendo col gioco dei dadi ben 60.000 scudi a Franceschetto Cybo.
Questi era il figlio, riconosciuto, di Giovanni Battista Cybo, un “galantuomo” che oltre a lui, aveva anche un’altra figlia riconosciuta (Teodorina) più altri cinque spacciati per nipoti e che, proprio l’anno seguente, diventò papa col nome di Innocenzo VIII. Il suo pontificato si caratterizzò per una continua ricerca di denaro, allo scopo di finanziare la lussuosa vita mondana condotta da lui e dai suoi accoliti. Non riuscì, tuttavia, nonostante ci avesse provato, a recuperare la forte somma persa dal figlio col cardinale Riario, proprio perché questi l’aveva investita nella costruzione dell’immobile nel quale, anni dopo, si trasferì la Cancelleria Apostolica, dando al palazzo il nome che conserva ancora oggi[10].
Come si può notare, un uso non propriamente “evangelico” di una gran quantità di denaro da parte di esponenti molto vicini alla curia vaticana ha alla fine portato, comunque, alla realizzazione di un’opera destinata ad arricchire il patrimonio culturale italiano e ad essere utile per la Chiesa, diventando col tempo sede, appunto, della nuova Cancelleria Apostolica, poi della Camera dei Deputati dello Stato Pontificio (1848), ufficio del Cardinale Cancelliere di Santa Romana Chiesa col privilegio dell’extraterritorialità (dopo il 1870) e, infine, sede dei Tribunali del Vaticano, tra cui la Sacra Rota e la Segnatura Apostolica.
Parafrasando un noto modo di dire, si potrebbe affermare che, rispetto alle mire di chi (Innocenzo VIII) voleva mettere le mani su quei 60.000 scudi per farne strumento di vita godereccia, “la farina del diavolo è andata tutta in crusca”.
A proposito di proverbi, ne esistono alcuni che prendono di mira, in modo anche malevolo, la Chiesa e i suoi membri proprio in base al rapporto non sempre limpido tra essi e il denaro, come il noto “senza soldi non si cantano messe”, oppure “denaro di stola, soffia che vola”. Chi scrive ha avuto modo, in passato, di occuparsi di modi di dire relativi alle monete e alla ricchezza[11]. Ma questa è un’altra storia.
NOTE AL TESTO
[1] La seconda parte della legenda, NON IN AVARITIAM, è presente su altre due monete di Clemente XI per Roma; più esattamente: mezzo scudo d’oro e grosso. [2] I 150 salmi che compongono il Salterio hanno una numerazione diversa a seconda che facciano riferimento al testo ebraico masoretico (versione della Bibbia ufficialmente in uso tra gli Ebrei) o ai manoscritti greci. [3] S. Agostino, Trattato 124 sul Vangelo di Giovanni. Cfr. Traina 2006, cit., p. 290. [4] Dante accosta la scena dell’ultima cena in cui l’apostolo Giovanni china il capo sul petto del Maestro con la figura del pellicano: “Questi è colui che giacque sopra ‘l petto del nostro Pellicano, e Questi fue di su la croce al grande officio eletto”. Cfr. Paradiso, XXV, 112-114. Il “grande officio” è costituito dal compito di accogliere Maria nella sua casa, assunto da Giovanni allorché Gesù gli disse, dall’alto della croce: “Ecco tua madre” (Cfr. Giovanni, 19, 27). [5] “Fa’, Gesù, Signore e Salvatore, prezioso Pellicano, che io peccatore riceva purificazione dal tuo sangue”. Cfr. Schmidt 1988, p. 90, richiamato da Traina 2006, op. cit., p. 298. [6] Sulla moneta compare CHARITATE che è “grafia tarda e specificamente cristiana per accostamento paretimologico col greco CHARIS, grazia”. Cfr. Traina 2006, op. cit., p. 398. Considerazioni analoghe valgono per le legende IN CHARITATE MVLTIPLICABITVR e DELICTA OPERIT CHARITAS. [7] La stessa impronta sarà ripresa in pieno XX secolo nella monetazione di Pio XII e Giovanni XXIII. Molto simile anche lo scudo d’oro di Gregorio XIII, con la Carità in piedi, un bimbo in braccio e due ai fianchi, e la scritta DEVS CHARITAS EST, “Dio è amore”, tratta dalla Prima Lettera di Giovanni Apostolo (4, 8). [8] In qualche caso i papi non si limitarono soltanto a invitare ad opere di carità, ma provvidero essi stessi direttamente. Un grosso e un mezzo grosso di Clemente XI con la legenda DEDIT PAVPERIBVS, “ha dato ai poveri”, ricordano l’azione del pontefice che, appena salito al soglio pontificio, destinò 10.000 scudi del suo patrimonio privato all’acquisto di cibo e altri beni per i poveri. Cfr. Traina 2006, op. cit., p. 87. [9] PAVPERI PORRIGE: Clemente XII, grosso. PAVPERI PORRIGE MANVM: Clemente XI, grosso, mezzo grosso; Clemente XII, grosso. Benedetto XIV, grosso (o mezzo paolo); Pio VII (Barnaba Niccolò Maria Luigi Chiaramonti, 1800-1823), grosso. Quest’ultima moneta è stata coniata anche nella zecca di Bologna. [10] Notizie tratte da Carpaneto 1998, pp. 106-110 e Rendina 1996, p. 594 e sgg. [11] Per chi fosse interessato, si rinvia a Mancini 2007.
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