Le riflessioni di un lettore offrono interessanti spunti sul collezionismo di monete | E ancora, il mercato fra professionisti e dilettanti, veri esperti e periti improvvisati

 

di Roberto Ganganelli | Ci scrive il nostro lettore Marco Di Conza: “Gentile direttore, dopo molto tempo riscrivo a questa testata che seguo con invariata fedeltà ma con discontinua frequenza. Insomma, da credente ma non molto praticante. Gli impegni professionali prima e la parternitá poi hanno tolto molto tempo a questa passione che, come dissi in una mia scorsa lettera, è allo stesso tempo arte, storia ed economia.

Dopo alcuni anni di inattività collezionistica ho deciso di riprendere in mano la mia mancolista e di rimettermi in linea con le tendenze del mercato… e dei mercatini. Ma ‘numismaticamente parlando’ la consapevolezza di un giovane uomo di neppure trent’anni cozza con quella di uno meno giovane, con più di quarant’anni e, ciò che mi sembrava normale allora oggi lo guardo con un poco più di riflessione.

“Riprendo in mano la mia mancolista…”

Premetto che colleziono monete di Vittorio Emanuele III e Repubblica Italiana dall’etá di dodici anni – al tempo ignaro della medesima passione di mio nonno materno che mai ho conosciuto – incoraggiato da mio padre che aveva visto in questo mio passatempo una fonte per una crescita personale e – perché no? – anche un piccolo investimento che poteva forse rivelarsi corretto nei decenni a seguire. Insomma, non sono un neofita ma neppure un numismatico nel senso professionale del termine.

Vengo al punto, direttore. Pur essendomi certamente ben chiara e presente la differenza, anche di prezzo, che corre tra uno stato di conservazione e l’altro di una moneta – soprattutto per quei pezzi che possono essere note di orgoglio per una collezione avviata da tempo – a distanza di anni e dopo una lunga pausa, questa differenza di cui dicevo mi si è ripresentata nella sua cinica veste di arbitrarietà.

Venditori di tutte le etá hanno spesso il medesimo approccio, viziato da sigle degne delle giovani marmotte che tanto mi affascinavano ma che ora guardo con quel fatalismo per certi versi tipico di noi romani.

“Sigle, sigle, sigle… E dettagli non sempre rilevanti…”

Mi dica lei che differenza passa oggettivamente tra un ‘bb-spl’ e un ‘q.spl’, o quale divario possa correre tra un ‘Spl+’ e un ‘q.FdC’. La litania… ‘Questione di patina, è evidente!’, ‘ma non lo vede il colore?’, ‘noti la narice destra di sua maestá quanto ancora è pronunciata’, ‘sì, il colpetto sul bordo forse c’è (sic!) ma il piumaggio qui fa la differenza’.

Ognuno ricopre il proprio ruolo, certo, uno vende e uno compra, uno espone e l’altro riflette. Ma spesso – molto spesso – mi pare di parlare un’altra lingua. Quale particolare rende degna di maggiore considerazione una moneta rispetto ad un’altra dello stesso anno e tipologia? Il bordo non perfetto è più lesivo di una serie di micro-graffi sul rovescio? Una macchia propria del metallo denobilita veramente un buon conio?

La mia collezione è giunta ad un punto in cui ancora poche monete potranno essere acquistate con relativa serenità prima di giungere al punto in cui mi domanderò ‘posso continuare?’. Se per simili e non ragguardevoli cifre si sta a polemizzare, con altre spese ben più ‘impegnative’ che dovrò fare?

“Posso continuare a collezionare?”

Mi dispiace disturbare inutilmente David Hume, ma la frase ‘La bellezza è nell’occhio di chi guarda’ non riesce ad abbandonarmi e forse dovrò fare una scelta: ‘abbassare il tiro’ e non correre dietro ad artificiose valutazioni speculative oppure obbedire a quell’imperativo categorico che inconsciamente il collezionista conosce, ma di cui spesso non vuole né può ammettere l’esistenza, che recita ‘non completerai mai la tua collezione perché una collezione non è tale se è completa’. Grazie del suo tempo e di quello dei lettori”.

“Quell’assurda pretesa del tutto o niente…

Per rispondere alla bella lettera del signor Di Conza – che ringraziamo per le puntuali riflessioni – partiamo dalla fine. Cosa significa completare una collezione? Limitiamo il campo, innanzi tutto, a quei settori della numismatica per i quali un completamento è almeno teoricamente possibile, come la monetazione di Vittorio Emanuele III.

Infatti, disponendo di tempo e denaro sufficienti è possibile, basta aver pazienza, mettere insieme anche le grandi rarità come le 5 lire del 1901 o le monete in oro Aratrice del 1910 (tutte non emesse, ma in ogni caso miraggio di tanti numismatici) oppure le emissioni “per numismatici” note in poche centinaia o decine di pezzi.

“Il collezionismo è espressione della nostra libertà…”

Consideriamo tuttavia un aspetto, troppo spesso messo in secondo piano: il collezionismo è un’espressione della nostra libertà. Non esiste un “regolamento” – se non la personale smania e gli obiettivi che ci poniamo, fino talvolta ad esserne schiavi – che imponga una forma e dei canoni assoluti alla nostra raccolta di monete.

Bene ha proceduto il signor Di Conza partendo dagli esemplari più “semplici” andando a crescere di rarità, sempre con un occhio alla conservazione ma senza esserne schiavo. Per quanto riguarda questo aspetto, vexata quaestio su cui potremmo versare fiumi d’inchiostro, è chiaro che la babele delle sigle e i piccoli – talvolta infinitesimali – dettagli che portano chi compra e chi vende a disquisire sul prezzo fanno parte in modo fisiologico di quella dimensione antropologica, genuinamente mercantile in fondo, che fa da corollario ad ogni commercio di beni non essenziali.

Tuttavia, il nostro lettore usa parole forti – “cinica arbitrarietà” – e questo dovrebbe far riflettere. Salvo pochi casi – quelle monete così rare o eccezionali per conservazione per cui vale il “prezzo a richiesta” – gli operatori professionali degni di questo nome propongono in media, per esemplari di tipo analogo e conservazione simile, una forbice di prezzi piuttosto ristretta. Sta al collezionista – e qui, di “occhio”, conta il suo – scovare la moneta in uno stato di conservazione appagante e al prezzo “migliore”, senza l’illusione di aver fatto l’affare della vita né ritrovarsi con  mezza sensazione di esser stato “imbonito”.

“I dilettanti allo sbaraglio e gli pseudo periti…”

La cinica arbitrarietà, stavolta per davvero, viene da quella selva di venditori di monete “pseudo professionali” – chiamiamoli pure dilettanti allo sbaraglio – che di giorno fanno, che so, gli impiegati o i professionisti e che di sera e nei weekend, specie in rete ma anche nei mercatini e nei convegni collezionistici, squadernano monete su monete con prezzi spesso fuori mercato e fantomatiche certificazioni, sigilli e controsigilli, garanzie peritali.

I periti numismatici, altro punto dolente: come si può garantire la preparazione di una figura di esperto se le camere di commercio quasi non fanno più esami per appurare se il sedicente “numismatico” sappia distinguere un ducatone dei Gonzaga da un gettone telefonico o un denario romano da un antoniniano? Bastano “i titoli”, anche questi “autocertificati” nella maggior parte dei casi, come associazioni a circoli vari – è una nota di merito? – e moderazione di discussioni online – spesso al livello di chiacchiere da bar – per dare ad un modesto appassionato di monete la “patina” di un perito numismatico.

Sto tuttavia divagando – ma forse no… – e torno dunque ad un’altra domanda del signor Di Conza: “Quali conservazioni privilegiare?”. Certo, tutti noi vorremmo tutto in assoluto fior di conio, ma non stiamo forse dimenticando che una moneta non comune, o rara, lo è di per sé? I veri collezionisti, prima di tutto “tappano il buco” con un Bb e poi cercano di migliorare – se le risorse a disposizione glielo permettono – oppure scelgono consapevolmente, e secondo me è lodevole, di creare una collezione che sia in parte o del tutto “vissuta” ma che nulla perde di valore culturale e nel piacere di ricostruire passo passo la monetazione di un re, di una città, di un periodo storico.

“Basta con il fior di conio a tutti i costi!”

Basta con il fior di conio a tutti i costi: se vogliamo che nuovi adepti, soprattutto giovani, scelgano come passione il collezionismo di monete dobbiamo tutti – dai commercianti agli appassionati già di lungo corso – ridare dignità, visibilità e appetibilità a tutte le monete.

Due esempi: quando avevo dodici anni, correva il 1986, scovai in un mercatino una 20 centesimi Impero del 1936, Bb a dir tanto; la pagai appena 500 lire – per questo, anche il mio giovanissimo ego si sentì appagato – e la misi in collezione, dove rimase per molti anni.

“Quella 2 lire del 1958 che passerà di padre in figlio…”

Un amico, invece, tempo fa mi ha confessato di essersi avvicinato per la loro bellezza alle lire della Repubblica Italiana confessandomi – quasi con vergogna, ma poi perché? – di aver già messo una pietra sopra al desiderio di possedere le serie del 1946-1947 e di voler almeno una 2 lire del 1958, suo piccolo sogno proibito e unico “buco” nella monetazione circolante del 1948-2001.

Con meno di 100 euro l’ha acquistata, in buonissimo stato – non fatemi usare sigle, non ci penso nemmeno! – e mi ha detto che vuole lasciare a suo figlio “tutte le lire di quando era ragazzino e che spendevano anche i suoi nonni”. Questa è una collezione, una vera collezione, con uno scopo e una dimensione personali che prescindono dalle logiche di mercato e soddisfano, cosa molto più importante, i desideri di un individuo.

E alla fin fine Hume ha ragione: “La bellezza è nell’occhio di chi guarda”, ossia – nel caso di un autentico collezionista numismatico – in una mente che sa vedere il reale valore di ogni moneta, quello di permetterci di ammirare la storia del mondo intero nel palmo della mano.