Scudi, berlinghe e parpagliole a Milano nel XVII secolo e nei “Promessi Sposi”: un percorso storico-monetario (e letterario) durante la dominazione spagnola

 

di Vittorio Mancini | Uno dei piaceri che la vita può riservare è certamente quello che deriva da una rilettura dei Promessi Sposi fatta senza seguire i rigidi schemi impartiti a scuola ma, semplicemente, come se si trattasse di un qualunque romanzo appena acquistato in libreria.
Se poi si ha anche il pallino della numismatica, il piacere può risultare ancora maggiore, visto che in diversi passi del capolavoro in questione si parla, appunto, di monete, in qualche caso anche con buona dovizia di particolari.

Alessandro Manzoni, celebre autore dei “Promessi Sposi”, ritratto sulla banconota italiana da 100.000 lire che gli venne dedicata negli anni ’60 e ‘70

A ben vedere, del resto, non c’è neppure molto da meravigliarsi visto che il nonno materno di Alessandro Manzoni era Cesare Beccaria, il giurista e uomo politico milanese passato alla storia per il suo fondamentale trattato Dei delitti e delle pene, il cui primo scritto fu, però, un saggio dal titolo Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano nel 1762, pubblicato a Lucca nel medesimo anno. Nulla di strano, perciò, se nella famiglia Manzoni l’argomento monete fosse, per così dire, di casa.

La vicenda narrata nei Promessi sposi è ambientata a Milano nel periodo della dominazione spagnola: la storia infatti inizia il 7 novembre del 1628, allorché Don Abbondio incontra i bravi di Don Rodrigo sulla strada che lo riconduce in canonica; le monete citate nel romanzo, dunque, vanno ricercate tra quelle in circolazione a Milano nel periodo in questione.

Lo scopo di questo articolo non è certamente quello di fornire un excursus completo sulla monetazione milanese di quegli anni ma, semmai, quello di suggerire a chi fosse interessato qualche stimolo per approfondire tale argomento. Per questa ragione ci si è limitati ad estrapolare dai Promessi Sposi i passi nei quali si parla di monete, accompagnandoli in qualche caso con le definizioni riportate dal Vocabolario della lingua italiana Treccani e con riferimenti, bibliografici e non, che per quanto non certamente esaustivi, si spera possano costituire una buona base di partenza.

La ricerca è stata condotta su una ristampa anastatica dell’edizione più nota dei Promessi Sposi, quella del 1840 illustrata da Francesco Gonin: chi ne possiede una copia (se ne trovano facilmente in commercio, anche in edizione economica) potrà pertanto anche far riferimento alle pagine che saranno via via citate.

La prima menzione numismatica del romanzo si trova nel VI capitolo: Renzo va in cerca del suo amico Tonio perché questi gli faccia da testimone nel tentativo di farsi sposare da Don Abbondio anche contro la volontà di costui. Per convincere il compagno, Renzo gli ricorda di avere un debito con il curato e promette di fornirgli, in cambio dell’aiuto, la possibilità di saldarlo: “Tu hai un debito di venticinque lire col signor curato, per fitto del suo campo, che lavoravi, l’anno passato” e, poco più avanti: “Se ti parlo del debito è perché, se tu vuoi, io intendo darti il mezzo di pagarlo” (cfr. p. 114). Di quali monete si trattasse è ben specificato in due passi successivi riportati, rispettivamente, nei capitoli VII e VIII.

Nel capitolo VII, proprio alla fine, Tonio tende il tranello a Don Abbondio per indurlo ad aprire la porta, in modo che Renzo e Lucia possano entrare e tentare di mettere il curato di fronte al fatto compiuto della loro unione. Per convincere quest’ultimo, Tonio spiega che è venuto a saldare il suo debito: “Sentite, tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n’abbia messi insieme degli altri.” (cfr. p. 138).

Questa è l’incisione del Gonin che illustra la pagina da cui è tratto il brano precedente. Più che una berlinga sembra essere la raffigurazione di una moneta da 10 soldi del 1614 battuta per conto di Filippo III

Capitolo VIII: finalmente entrato, Tonio mostra le monete a Don Abbondio: “Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col Sant’Ambrogio a cavallo” disse Tonio levandosi un involtino di tasca. «Vediamo,» replicò Don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto”. (cfr. p.142).

La descrizione data nei Promessi Sposi sembra essere abbastanza accurata; questa è infatti la definizione di “berlinga” reperibile sul Vocabolario Treccani: “nome della lira milanese dei secoli 16°-17°; portava nel rovescio la figura di s. Ambrogio a cavallo e valeva 16 soldi, poi (dal 1552) 20 soldi”.

Gli ultimi due brani su riportati, già anticipati per unitarietà, seguono in realtà un altro passo del romanzo nel quale Manzoni nomina un diverso tipo di tondelli. Capitolo VII: Agnese manda Menico a Pescarenico per contattare Padre Cristoforo. Come ricompensa gli promette delle monete: “Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta… guarda; queste due belle parpagliole nuove sono per te” (cfr. p. 124).

E questa è la definizione di “parpagliola” sul Vocabolario citato: “moneta di mistura, originaria della Provenza (sec. 14°-15°), imitata poi in vari Stati e paesi, e anche a Milano, durante la dominazione francese dei primi decenni del secolo 16°, dove ebbe il valore di 2 soldi e 6 denari e corso fino al 1822 (ad eccezione del periodo 1777-1807)”.

Parpagliola milanese in mistura a nome di Filippo IV di Spagna (1598-1621)

Nel capitolo XXII, Manzoni descrive al lettore la figura del cardinale Federigo Borromeo. Tra le altre notizie aggiunge: “Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della servitù; e detto che seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d’oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio.” (cfr. pp. 417-418).

Doppia (due scudi) in oro senza data coniati a Milano da Filippo IV di Spagna (1621-1665)

Ma la generosità del cardinale Borromeo viene descritta anche nel capitolo XXVI: Lucia, liberata ormai dal castello dell’Innominato grazie all’intervento dell’alto prelato, è stata appena affidata a donna Prassede; intanto Federigo fa pervenire ad Agnese un involto con cento scudi d’oro perché li impieghi come dote della figlia. E’ molto bella la descrizione di quel che fa la madre di Lucia dopo l’inaspettato e generosissimo dono, illustrata, oltre che dalle efficaci parole del Manzoni, anche da una incisione del Gonin visibile nella figura riportata più avanti: “Andò a casa, zitta, zitta; si chiuse in camera, svoltò il rotolo , e quantunque preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchietto e suoi, tanti di que’ ruspi, de’ quali non aveva forse mai visto più d’uno per volta, e anche di rado; li contò, penò alquanto a metterli di nuovo per taglio, e a tenerli lì tutti, ché ogni momento facevan pancia, e sgusciavano dalle sue dita inesperte; ricomposto finalmente un rotolo alla meglio, lo mise in un cencio, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene in giro con della cordellina, l’andò a ficcare in un cantuccio del suo saccone” (cfr. p. 501).

Qui vale forse la pena di soffermarsi un attimo sulla parola “ruspi”: in realtà essa non indicava, almeno a Milano, una moneta vera e propria (a Firenze, invece, ruspo o ruspone era il nome dello zecchino o fiorino gigliato coniato nel 1719 da Cosimo III dei Medici) ma era il termine col quale si usava indicare – e pare che si usi ancora oggi nel dialetto lombardo con la voce “röspech” – una moneta nuova di zecca, non ancora consunta o levigata dall’uso e dalla circolazione. L’etimologia di questo termine è incerta, ma potrebbe derivare dal longobardo.

Un’altra scena celebre dei “Promessi Sposi: Agnese mentre ammira, sotto forma di pile di sonanti monete, il generoso dono del cardinale Borromeo

Altra citazione numismatica nel capitolo XXVIII: la peste è ormai padrona di Milano, le Autorità dispongono che i contagiati vengano rinchiusi nel Lazzaretto e per costringervi anche coloro che non vogliono, impiegano la forza: “Si mandarono in ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzaretto, e vi menassero legati quelli che resistevano; per ognun de’ quali fu assegnato a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori strettezze, i danari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito” (cfr. pp. 541-542).

Ma le sorprese numismatiche dei Promessi Sposi non sono ancora terminate: nel capitolo XXXIII si parla infatti di come Renzo, ristabilitosi dalla peste, decida di tornare dal territorio bergamasco a quello di Milano per andar in cerca di Lucia e di Agnese, sperando di ritrovarle ancora vive e di come, nell’apprestarsi a partire, egli ovviamente non dimentichi di portare con sé la sua parte di scudi donata dal cardinale Borromeo: “Si mise sotto i panni una cintura, con dentro que’ cinquanta scudi, che non aveva mai intaccati, e de’ quali non aveva mai fatto parola, neppur con Bortolo; prese alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per giorno, risparmiando su tutto” (cfr. p. 635).

Non ci sono elementi per stabilire se con il termine “quattrini” l’Autore abbia voluto indicare uno specifico tipo di moneta o se più semplicemente ha impiegato questo sostantivo per suggerire l’idea generica di denaro, come si fa anche oggi nell’uso corrente; ad ogni buon conto, questa è la definizione che ne da il Vocabolario Treccani: “moneta, in rame o mistura, del valore di 4 denari in uso in Italia dal 13° al 19° secolo”.

Quattrino di Filippo IV per Milano (1621-1665)

Una ulteriore tipologia monetale viene citata nel XXXIV capitolo: Renzo è alle porte di Milano, e cerca il modo per entrare in città (teme di essere ancora ricercato dopo i disordini per il pane che lo avevano visto coinvolto tempo prima). Giunto a Porta Nuova, vede i monatti caricare in barella un contagiato e approfitta dell’apertura del varco per entrare in città: “… non venendo nessuno a richiudere il cancello, gli parve tempo, e ci s’avviò in fretta; ma la guardia, con una manieraccia, gli gridò: «Ola!» Renzo si fermò di nuovo su due piedi, e, datogli l’occhio, tirò fuori un mezzo ducatone, e glielo fece vedere. Colui, o che avesse già avuta la peste, o che la temesse meno di quel che amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che glielo buttasse; e vistoselo volar subito a’ piedi, sussurrò: «va innanzi presto»”.

Sul Vocabolario Treccani, così si legge sotto la voce “ducatone”: “nome di varie monete d’argento, molto grandi, create in molte zecche d’Europa nel sec. 16°; con tale nome furono anche chiamati il filippo, la piastra e lo scudo, e a Venezia il ducato d’argento del 1563 e il ducato delle galere o giustina minore emesso nel 1572”.

Ducatone coniato a Milano nel 1608 a nome di Filippo III di Spagna (1598-1621)

 L’ultimo passaggio del romanzo nel quale si parla di monete è contenuto nel capitolo XXXVII e riguarda, ancora una volta, il dono fatto ai protagonisti dal cardinale loro protettore; Renzo è a colloquio con Agnese e le comunica che sta per ripartire per il bergamasco, dove andrà a preparare casa e dove sa che troverà un lavoro: “Prima di partire, offrì anche a lei dei danari, dicendo: «gli ho qui tutti, vedete, que’ tali: avevo fatto voto anch’io di non toccarli, fin che la cosa non fosse venuta in chiaro. Ora, se n’avete bisogno, portate qui una scodella d’acqua e aceto: vi butto dentro i cinquanta scudi belli e lampanti». «No, no» disse Agnese: «ne ho ancora più del bisogno per me: i vostri, serbateli, che saran buoni per metter su casa».”.

Berlinghe, parpagliole, scudi, soldi, quattrini e ducatoni: con tutte queste tipologie monetali, dunque, Alessandro Manzoni ha voluto arricchire il suo capolavoro – un romanzo storico davvero completo – fornendo al lettore appassionato di numismatica un motivo ulteriore per apprezzarlo e, magari, il desiderio di saperne qualche cosa in più.

Per saperne di più
  • Filippo Argelati, De monetis Italiae, Pars quinta, Milano, 1759 (anche in rist.  anastatica.: Milano, Iniziative culturali ed editoriali bancarie, 1980)
  • Bernardino Biondelli, La Zecca e le monete di Milano, Milano, Bernardoni, 1869
  • Francesco Gnecchi, Ercole Gnecchi, Le monete di Milano da Carlo Magno a Vittorio Emanuele II, Milano, Dumolard, 1884 (anche in rist. anastatica.: Sala Bolognese, Forni, 1979. Questa rist. contiene anche, degli stessi utori, Monete di Milano inedite, Milano, Cogliati, 1894)
  • Corpus Nummorum Italicorum, Vol.V, Lombardia, Milano, Roma, R. Accademia dei Lincei, 1914 (anche in rist. anastatica.: Sala Bolognese, Forni, 1970)
  • Edoardo Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Roma, Istituto italiano di numismatica, 1914 (anche in rist. anastatica.: Roma, Multigrafica, 1977)
  • Marco Strada, La Zecca di Milano e le sue monete, Milano, La Famiglia Meneghina, 1930
  • Maila Chiaravalle (catalogo a cura di), La Zecca e le monete di Milano, Milano, Mazzotta,  1983. Catalogo della mostra tenuta nel 1983
  • Carlo Crippa, Le monete di Milano. Durante la dominazione spagnola dal 1535 al 1706, Milano, Crippa, 1990
  • Romano Canosa,  Milano nel Seicento. Grandezza e miseria nell’Italia spagnola, Milano, A. Mondatori, 1993
  • Silvana Crippa, Carlo Crippa (a cura di), Le monete della Zecca di Milano nella collezione di Pietro Verri, Milano, Banca commerciale italiana, 1998