Così Dominique Vincent Ramel commentava la fortuna degli assegnati | La storia di un simbolo della Francia nata sulle ceneri della Bastiglia

 

di Luisa Valle | Alla vigilia della Rivoluzione la Francia versava in condizioni economiche a dir poco disastrose. Il Paese si dibatteva da decenni in difficoltà finanziarie gravissime e ciò costituì una delle cause principali del suo crollo. Concorse, tuttavia, anche un certo tipo di pensiero a trascinare la Francia dell’Ancien régime al collasso economico, ovvero l’assoluta estraneità dei monarchi ai meccanismi economici e monetari dello Stato.

Secondo la mentalità del tempo, giunta indenne direttamente dal Medioevo, il re, in base ad una tradizione che risaliva ai Capetingi, doveva vivere soltanto del suo, cioè dei possedimenti della corona. In caso di particolare gravità, i suoi vassalli ed il popolo potevano concedergli un prestito, in denaro e in prestazione d’opera.

Sia il re che la nobiltà più antica pensavano che la gloria della casa reale risiedesse nello sfarzo dei palazzi, nella corte, nell’esercito, per la gestione dei quali non ponevano limiti di spesa; un monarca non si rassegnava mai a scendere negli avvilenti meccanismi dell’amministrazione e della moneta, demandava questo compito ad un amministratore.

Colbert, amministratore delle finanze di Luigi XIV, rimproverava al re di “non aver mai consultato lo stato delle sue finanze prima di risolversi ad una spesa”. Effettivamente, nessun re della casa di Borbone ebbe mai idea, né mai si preoccupò di pensarci, di ciò che avrebbe potuto rappresentare un bilancio.

Questa mentalità così arcaica rendeva la Francia uno Stato economicamente debole di fronte a paesi come l’Inghilterra e l’Olanda, molto più attenti all’amministrazione delle finanze e aperti ad una gestione imprenditoriale dell’economia statale. Certo, questo disinteresse per le questioni economiche giocò un ruolo importante nel processo che trascinerà la Francia alla bancarotta, sommato ad un incremento delle spese statali a dir poco esorbitante.

La presa della Bastiglia, evento simbolo della Rivoluzione del 1789 in Francia

Le spese dello Stato, dal 1660 fino al 1788, erano lievitate da 17,5 milioni di lire tornesi a 629,6 milioni. Siccome la lira tornese era stata svalutata, per calcolare l’effettiva entità delle spese dello Stato occorre calcolare l’equivalente in argento fino speso: esso passò da 192 tonnellate all’inizio del 1600 a 2800 nel 1788, a fronte di un incremento della spesa pubblica del 1358%. Una progressione impressionante!

Erano state soprattutto le spese della Guerra dei trent’anni, la Fronda e la Guerra di successione spagnola a gravare enormemente sul bilancio statale, mentre le spese del re e della corte erano state progressivamente gonfiate: Enrico IV spendeva molto più di Luigi XIV, e Luigi XIV molto più di Luigi XVI.

Il fatto è che le spese dei sovrani più recenti avevano subito una sempre maggiore pubblicità, e, sommate al fatto che tutto gravava sul già enorme debito pubblico, col tempo erano diventate sempre più intollerabili alla gran parte della popolazione che viveva di un’economia di sussistenza e da sempre mal sopportava ogni tipo di esazione. Luigi XVI è passato alla storia come uno spendaccione, ma in realtà – purtroppo per lui – i suoi sperperi furono molto più pubblicizzati di altri.

IL PROBLEMA FINANZIARIO

L’esplosione della Rivoluzione, nel luglio del 1789, rovinò definitivamente la già debole economia dello Stato. Le antiche imposte furono soppresse, ma le nuove che avrebbero dovuto sostituirle furono esatte con difficoltà, anzi, non lo furono affatto. L’Assemblea Costituente non aveva voluto imporre tasse di consumo, poiché queste gravavano in egual misura su redditi ineguali, ma doveva fare i conti con le nuove spese: si dovette ad esempio ricorrere ad un massiccio acquisto di grano all’estero necessario per fare fronte alla carestia che aveva investito il Paese nel 1788.

Per reperire nuovi fondi i Costituenti tentarono di tutto: fu tagliato ogni credito al re, il vasellame prezioso della casa reale fu inviato alla zecca, fu votata una contribuzione patriottica straordinaria, le dame donarono i loro gioielli e gli uomini le loro fibbie d’argento.

Trovare nuove risorse sembrava un’impresa impossibile e, forse, non si percepiva interamente l’urgenza della situazione. Rimaneva il fatto che lo Stato non aveva più credito, e non poteva continuare ad impegnare le proprie entrate.

“Bisogna fare – disse Lecoulteux de Canteleu, azionista della Cassa di Sconto e importatore dell’argento spagnolo – quello che fanno i proprietari onesti che si vengono a trovare in casi analoghi: bisogna alienare l’eredità”. L’eredità erano i beni ecclesiastici, che l’Assemblea dichiarò, il 2 novembre 1789, “a disposizione della Nazione”.

L’esecuzione di Luigi XVI in una stampa popolare inglese della fine del XVIII secolo

 

L’idea non era nuova, ma fu Talleyrand a rendere ideologicamente possibile l’operazione. Egli infatti specificò che quei beni non erano stati donati al clero, ma alla Chiesa, che altro non era che l’insieme dei fedeli, in una parola, la Nazione.

I beni erano stati destinati a fondazioni di carità e di utilità generale: riprendendoseli l’assemblea dei fedeli, la Nazione, si sarebbe assunta il mantenimento delle opere pie, dell’istruzione, dell’assistenza, le spese del culto e gli stipendi del clero.

Invano l’opposizione ecclesiastica replicò che i beni erano stati donati a istituti ecclesiastici che non potevano esserne privati senza subire un’ingiustizia, e che la situazione del clero era già gravemente compromessa dalla soppressione delle decime.

La Costituente aveva deciso: con 508 voti contro 346, le immense proprietà della Chiesa, valutate in tre miliardi di lire tornesi, furono destinate a garantire i debiti dello Stato.

LA NASCITA DEGLI ASSEGNATI

Il 19 dicembre 1789 l’Assemblea decise di creare un’amministrazione finanziaria alla sua esclusiva dipendenza: nacque la Cassa dello Straordinario, alimentata dalla vendita dei beni ecclesiastici. La prima emissione della Cassa fu di 400 milioni di assegnati, prodotto della vendita di beni della corona e del clero, appena nazionalizzati.

In questa prima fase l’assegnato non è che un semplice buono del Tesoro, non ancora una moneta, ma un buono d’acquisto privilegiato sulle terre demaniali: esso porta un interesse del 5%. E’ un buono del Tesoro rimborsabile in terre invece che in moneta.

Il meccanismo funzionava così: un cittadino decideva di investire il proprio denaro in buoni del Tesoro, cioè gli assegnati, che acquistava presso la Cassa dello Straordinario. Alla scadenza, invece di percepire il denaro investito più l’interesse del 5%, otteneva l’equivalente in terreni.

Questi assegnati “prima maniera” furono emessi dal Tesoro a partire dal gennaio del 1790. Erano biglietti da 200, 300 e 1.000 lire, emessi per l’acquisto di beni nazionali, recuperati dalla Cassa dello Straordinario e poi distrutti. Così si sarebbe estinto il credito dello Stato.

L’Assemblea nutriva grande fiducia negli assegnati, poiché, a loro avviso, erano più sicuri dei biglietti che avevano circolato in passato: questi ultimi infatti erano garantiti da future entrate fiscali, quelle cioè non ancora riscosse. Gli assegnati invece erano garantiti da beni già dello Stato e pronti alla vendita, non si vedeva motivo perché la gente li potesse rifiutare.

Cominciò così a farsi strada l’idea di trasformare l’assegnato in cartamoneta, e farlo circolare liberamente. Si cominciò a pensare ad un corso forzoso. Si procedette così ad una seconda emissione di assegnati, con un interesse del 3% che si calcolava giorno per giorno.

Con il decreto del 17 aprile 1790 l’Assemblea stabilì che gli assegnati “avranno corso di moneta per tutte le persone e in tutto il territorio del Regno, e saranno accettati come moneta sonante in tutte le casse pubbliche e private” (foto 1). Fu permesso però ai privati di escluderli dalle loro transazioni future: non si ordinava così un vero e proprio corso forzoso.

Foto 1 | Assegnato da 300 lire. Emissione 16-17 aprile 1790. Tagli da 200, 300, 1000 lire. A sx cartiglio con cifra in lettere; al centro ritratto di Luigi XVI e legenda circolare, in basso gigli di Francia e legenda circolare. In basso a sx numero di serie, in basso a dx interesse calcolato giornalmente. Cornice in foglie d’acanto disegnata da Lorthiot. Questo esemplare da 300 lire è in carta rosa con inchiostro nero, firme manoscritte di Anquetil e Gast

 

L’Assemblea non aveva previsto che questo avrebbe acceso una concorrenza fra la valuta di carta e la valuta di metallo, e che la carta avrebbe inevitabilmente avuto la peggio! I Costituenti non avevano avuto l’idea di ritirare l’oro e l’argento dalla circolazione e questo, sommato alla enorme diffidenza che i Francesi nutrivano verso la cartamoneta, cominciò a provocare una certa svalutazione.

La gente non li accettava volentieri, ed i tagli più alti dei biglietti non incoraggiavano il cambio, mentre per i piccoli acquisti erano necessari l’oro e l’argento. Iniziò così ad aprirsi una concorrenza tra la valuta metallica e la valuta di carta.

Foto 2 | Assegnato da 50 lire. Emissione 29 settembre 1790. 1° tipo. Tagli da 50, 60, 70, 80, 90, 100 lire. Formato 192×103 mm. Impresso in nero su carta bianca. Cornice con fioroni, ritratto di Luigi XVI con profilo a dx di Gatteaux con legenda circolare. Timbro a secco di Lorthiot impresso in basso al centro con stemma reale e dicitura “La loi et le roi”. Firma manoscritta di Duneuf-Germain

L’AGGRAVAMENTO DELLA CRISI

Verso l’estate del 1790 il disavanzo economico dello Stato cresce ancora. Secondo le stime dei Costituenti mancavano allo Stato circa 40 miliardi al mese per pareggiare il bilancio. Per intervenire l’Assemblea Costituente cominciò a pensare di alienare l’insieme dei beni nazionali.

Il 29 settembre 1790 si procedette all’emissione di 1.200 milioni di lire in assegnati-moneta senza interessi (foto 2 e foto 3). I Costituenti avevano fiducia in questi assegnati che, non portando interesse, avrebbero circolato ovunque e non sarebbero rimasti nelle cassette.

Foto 3 | Assegnato da 2.000 lire. Emissione 29 settembre 1790. 2° tipo. Tagli da 500 e 2000 lire. Impresso in rosso su carta bianca, serie scritta a mano e firma manoscritta di Chretien

 

Il successo iniziale del nuovo assegnato-moneta faceva ben sperare: dal novembre 1790 la vendita dei beni nazionali spiccò il volo e si accelerò decisamente quella dei beni del clero, così nel giugno 1791 fu autorizzata una nuova emissione di 100 milioni in piccolo taglio di 5 lire, chiamati corsets (foto 4).

Si ricorse all’emissione di tagli piccoli poiché i tagli grossi trovavano molta resistenza al cambio e risultava praticamente impossibile spenderli per piccole spese: nessuno era disposto a prendere carta-moneta e pagare il resto in scudi. Ma i dubbi in merito furono molti, soprattutto si temeva che, creando tagli piccoli, gli operai non sarebbero più stati pagati in scudi o in rame, ma in carta: i loro salari avrebbero così perso enormemente in potere d’acquisto. Fu proprio quello che accadde.

Furono emessi inoltre 480 milioni di assegnati in tagli più grossi. Ma la loro perdita rispetto alla moneta metallica fu inevitabile: già nella primavera del 1791 non era possibile cambiare un assegnato in scudi se non pagando un aggio del 6-7%; nell’estate dello stesso anno si doveva pagare un aggio dal 10 al 20 %, per 100 lire in assegnati si ottenevano 80 lire in moneta metallica.

Comparvero poi, per qualsiasi merce, due prezzi, uno in assegnati ed uno in moneta, che divenne un bene sempre più raro e prezioso. Ogni bene pagato in moneta invece che in carta veniva a costare meno. La crisi del metallo si aggravava, le monete d’argento erano scomparse, nascoste o esportate, e a nulla servirono le emissioni di moneta in rame ottenuto dalla fusione delle campane delle chiese.

La gente esigeva i salari in moneta d’argento, e non ammetteva la differenza tra i prezzi in assegnato e i prezzi in valuta metallica: s’irritava contro i mercanti e li malmenava. Scoppiarono disordini un po’ dappertutto, mentre i datori di lavoro cercavano di fare fronte nei modi più disparati: si tentarono pagamenti in natura distribuendo a mo’ di salario grano e stoffe, si diffusero in città i gettoni di necessità, i biglietti patriottici, le monete di fiducia, che però i contadini accettavano malvolentieri in cambio dei loro prodotti. I Monneron, grossi mercanti parigini, coniarono denaro spicciolo con la loro insegna, gettoni dal valore di 5 soldi cambiabili in assegnati (foto 5).

Foto 4 | Assegnato da 5 lire tipo “Corsets”. Emissione decretata il 6 maggio 1991. Il nome origina da una deformazione del nome del firmatario Jean Corsel. Impresso in nero su carta bianca, numero manoscritto, lettere di serie precedute da un numero. Timbro secco con effigie di Luigi XVI disegnato da Gatteaux

 

La svalutazione progressiva rendeva difficile convincere i cittadini a fidarsi della cartamoneta: già all’inizio del 1792 gli assegnati perdevano a Parigi il 44%, il luigi d’oro valeva 36 lire in assegnati contro le normali 24. Se in Francia perdevano dal 25 al 35%, all’estero la svalutazione era del 50-60%.

Unica nota positiva in questo generale fallimento economico fu la vendita dei beni nazionali e del clero. Essa fu un successo: le vendite furono rapide e trovarono acquirenti a prezzi spesso superiori ai valori stimati. Il successo di questa grande operazione fu dovuto a cause differenti, ma una delle principali fu soprattutto la volontà di sbarazzarsi degli assegnati, cambiandoli con una proprietà solida come la terra.

Considerando poi che per il pagamento dei beni nazionali l’assegnato veniva accettato per il suo valore nominale, l’acquirente guadagnava tutta la differenza tra il valore nominale e il valore reale.

Non furono solo gli aristocratici ad acquistare i beni messi in vendita: il più forte acquirente dei lotti messi all’asta fu la borghesia delle città. I contadini non raccolsero che una fetta minima del bottino messo all’asta, ma ciò bastò a fargli guadagnare fiducia nella Rivoluzione.

La caduta del re e le conseguenti guerre toglieranno ogni speranza ai partigiani della Rivoluzione, e daranno all’assegnato una seconda strada da percorrere, totalmente imprevista: quella di moneta fiduciaria della repubblica.

Foto 5 | “Monneron”. Il nome viene dai fratelli Monneron, ricchi commercianti di Parigi che commerciavano con le Colonie, ed erano in affari con la Compagnia delle Indie. Essi ottennero il privilegio di battere moneta in rame. Porta la dicitura “medaglia di fiducia” da 5 soldi, rimborsabile in assegnati da 50. Sul diritto il giuramento alla Carta Costituzionale il 14 luglio 1790 e la scritta “pacte federatif”. C’è ancora l’effigie di Luigi XVI. La medaglia è firmata da F. Duprè. Sui bordi “vivre libre ou mourir”

LA REPUBBLICA E LE GUERRE

Dopo la proclamazione della Repubblica, nel novembre del 1792, Saint-Just pronunciò una frase passata alla storia: “Non vedo altro nello Stato che miseria, orgoglio e carta.” Ma la situazione doveva ancora peggiorare dopo la morte del re, all’inizio del 1793 quando la Francia intraprese la guerra contro l’Inghilterra, padrona del mare, e della Spagna, padrona dell’approvvigionamento di argento: si interrompe così il flusso di metalli in entrata.

La guerra significava poi truppe da equipaggiare e da pagare, preferibilmente in denaro contante, per evitare ribellioni. Ma non ci furono possibilità se non il pagamento in assegnati. Tra la caduta del Re e quella di Robespierre furono emessi circa undici miliardi di assegnati, tra cui molti piccoli tagli da 10 e 50 soldi.

Una produzione così massiccia venne a creare numerosi problemi, soprattutto tecnici: la firma meccanica si sostituì alla firma manoscritta che autenticava il biglietto, nel 1793 comparve il numeratore meccanico che andava da 1 a 9.999 (foto 6). L’approvvigionamento di stracci per fabbricare la carta divenne più difficile e smodata, gli operai delle cartiere obbligati a turni massacranti, sorvegliati e super sfruttati.

Un altro grosso problema che si presentò già dal 1792 fu la falsificazione ma alla fine la severità delle pene, la difficoltà del lavoro, la rarità del materiale e il deprezzamento della carta-moneta scoraggiarono i falsari (foto 7).

Foto 6 | Assegnato da 400 lire. Emissione del 21 novembre 1792, composta da assegnati da 400 lire. Questa emissione vede due novità importanti: l’adozione della numerazione automatica che permette di imprimere un numero individuale su ogni assegnato; le firme sono stampate e non più manoscritte. In una cornice formata da greche si trovano la libertà e l’uguaglianza. Il simbolo è composto da un’aquila sopra un’ esplosione di fulmini che tiene nel becco un serpente che si morde la coda, simbolo dell’eternità. Il serpente forma un cerchio intorno al berretto frigio che sormonta un fascio. Ai lati la firme degli incisori: Gatteaux e Tardieu. La firma sul biglietto è di Crosnier

 

Le difficoltà economiche della repubblica obbligarono la Convenzione ad emettere carta-moneta in quantità sempre maggiore e di conseguenza a nazionalizzare beni sempre più numerosi: quelli degli emigrati già nella primavera del 1792, quelli dei parenti degli emigrati a fine ’93, poi quelli degli stranieri dei paesi nemici, quelli dei condannati a morte, quelli del clero e della nobiltà del Palatinato e del Belgio nel 1794. Lo stesso sistema si riproduceva in tutte le repubbliche oltre frontiera, di conseguenza anche in quelle italiane.

Comunque, in questo periodo, l’assegnato è a tutti gli effetti carta-moneta dello Stato, e negli anni successivi al 1793 conosce tutti i problemi della moneta di un paese in guerra, con un’economia disorganizzata, un carovita che non conosce freni e una svalutazione impressionante. Dal 1789 al 1793 le cose infatti erano peggiorate in maniera vertiginosa.

Per fare qualche esempio nel 1789 gli stipendi di alcune categorie di lavoratori erano queste: nelle fasce di reddito più alte il ministro del re godeva di uno stipendio di 800.000 lire annue, per il vescovo di Strasburgo l’appannaggio era di 400.000 lire annue. Ad un livello medio stava ad esempio il vescovo di Vence, che percepiva 7000 lire annue.

Le cose cambiano decisamente quando si scende agli strati più bassi della società: un curato di campagna doveva vivere con 700 lire annue, un contadino con 300 lire annue ed un salario giornaliero di 20 soldi, un operaio con 600 lire annue ed un salario giornaliero di 40 soldi. All’ epoca il prezzo del pane era di 3 soldi la libbra, quello dello zucchero 22-25 soldi la libbra, il lardo10 soldi la libbra ed il burro 8 soldi la libbra.

Nel 1792 lo stipendio di un operaio in assegnati da 40 soldi al giorno scende, per la svalutazione ad un valore pari a 32 soldi. Allo stesso tempo il prezzo del pane sale da 3 a 8 soldi la libbra, lo zucchero da 20-25 a 60 soldi la libbra, il lardo da 10 a 34 soldi, il burro aumenta da 8 a 10 soldi la libbra. Un sestiere di grano (220 libbre) costa 25 lire, 500 soldi.

Foto 7 | Assegnato da 25 soldi. Emissione del 4 gennaio 1792. L’Assemblea Legislativa decreta l’emissione di assegnati inferiore alle 5 lire. Compaiono l’occhio che controlla i contraffattori, il gallo di Francia con la scritta “la libertè ou la mort”. Numero e firma di Hervè impresse a stampa

 

Nel 1793, lo stipendio di un operaio in assegnati, con una svalutazione del 35% raggiunge un potere d’acquisto pari a 26 soldi. Il prezzo del grano però si incrementa da 30 lire il sestiere all’inizio dell’anno a 36 lire il sestiere a fine anno, così il prezzo del pane passa nel corso dell’anno da 9 a 11 soldi la libbra (la libbra poteva variare da 453 grammi a 489 grammi secondo le località).

Il pane era la base dell’alimentazione, se ne consumavano da 400 a 500 grammi al giorno pro capite, quindi circa una libbra. La svalutazione aveva ridotto enormemente il potere d’acquisto dei salari, mentre i rincari non avevano freni: si può comprendere l’esasperazione di chi doveva sfamare una famiglia a queste condizioni!

Nel maggio 1793 la Convenzione tentò di imporre un sistema di prezzi fissi per il grano e la farina noto con il nome di maximum, che si dimostrò un assoluto fallimento, visto che il deprezzamento della carta raggiunse il 50% all’inizio del Terrore e il 65% in termidoro.

Comunque, grazie agli assegnati, la repubblica poté armare un milione di uomini e resistere fino ai tanto agognati successi militari dell’estate del 1794. Ramel, un economista tra i più autorevoli della Repubblica, ministro delle Finanze nel 1794-95, commentò: “Gli assegnati han fatto la Rivoluzione, han rovesciato il trono e fondato la Repubblica!”.

IL DECLINO DELLA CARTA E IL RITORNO AL METALLO

Nel gennaio 1795 finalmente le cose iniziarono a volgere al meglio: la Francia firmò con l’Olanda sconfitta il trattato dell’Aia, che prevedeva indennità olandesi per cento milioni di fiorini, e, ancora più importante, la pace con la Spagna, che ripristinava il flusso di metalli preziosi dall’America.

Con il decreto del 15 agosto 1795, (28 termidoro anno III), la Convenzione definiva la nuova unità monetaria,il franco, con un peso in argento di 5 grammi, riferimento che resterà valido fino al 1928. La parola franco venne scritta anche sugli assegnati, ma il ritorno del metallo provocò l’aumento dei prezzi e fece crollare il valore della carta (foto 8).

Col ritorno al metallo nelle province si abbandonò definitivamente la carta, tanto che, si diceva, “passata Sèvres non si trova manco un bicchier d’acqua in cambio di assegnati”; solo nella capitale, grazie ai salari e ai contratti pubblici, essa poteva continuare a circolare, ed infatti veniva soprannominata “carta di Parigi”. Ma questo purtroppo non fece che alimentare l’aggiottaggio, che riprese in tutte le sue forme. A questo punto occorreva liberarsene.

All’inizio del 1796 si decise così di ricorrere ad un mezzo estremo: furono distrutti i cliché per gli assegnati, cioè gli stampini, le matrici e le piastre che permettevano la loro fabbricazione. Per l’occasione si organizzò una festa il 19 febbraio, particolarmente ridicola poiché nello stesso momento venne lanciata una nuova carta-moneta, il mandato territoriale (foto 9).

Foto 8 | Assegnati in franchi. Emissione del 18 nevoso anno III, 7 gennaio 1795. Tagli da 100, 750, 1.000, 2.000, 10.000. 100 franchi: cornice con motivi rivoluzionari, il berretto frigio, la Costituzione. Firma di Tuet a stampa. La Repubblica ricompensa i denunciatari. Il taglio da 5 franchi fu stampato, ma il deprezzamento fu così rapido che il biglietto non circolò

 

Il mandato territoriale doveva equivalere all’argento, di nuovo secondo le aspettative del 1790! L’emissione massiccia invece non fece che accelerarne il deprezzamento, con grande gioia degli speculatori e degli acquirenti dei beni nazionali, che si gettarono sulla torta senza esitazioni. In estate si dovette cedere all’evidenza: il mandato territoriale si deprezzava velocemente, era ormai chiaro a tutti che non reggeva il confronto con l’argento.

La popolazione dava chiari segni di esasperazione per tutta questa massa di carta senza valore che continuava a circolare. Con la legge del 16 piovoso anno IV, 4 febbraio 1797, il Direttorio si vide costretto a sopprimere il corso forzoso del mandato; il 22 piovoso, 10 febbraio, questa misura fu estesa anche agli assegnati.

Malgrado la soppressione dei due biglietti lo Stato emise ancora 25 milioni di franchi in mandati territoriali da 5 franchi, il 23 floreale anno VI, 12 maggio 1798. Con questa ultima emissione si chiudeva definitivamente l’esperienza rivoluzionaria della carta-moneta, che aveva significato miseria e fame per la stragrande maggioranza dei francesi; la sua vita sarebbe stata senz’altro più breve se non avesse rappresentato, per poche migliaia di speculatori, contribuenti poco solleciti, profittatori della vendita dei beni nazionali, un ottimo e appetitoso affare. La Rivoluzione aveva creato una nuova classe di possidenti.

Lo Stato, dal canto suo, dovette tirare le somme di questa bancarotta che fu frenata soltanto grazie alle rapine dell’armata d’Italia, alla requisizione dei beni nazionali del Belgio, e alle ruberie a danno dei suoi stessi cittadini. Due erano stati i presupposti sui quali i governi rivoluzionari avevano basato tutti i loro calcoli: l’imitazione dell’Inghilterra e la presunzione di poter prevedere e manovrare i processi economici.

Ma non avevano fatto bene i conti: l’Inghilterra aveva emesso una ingente quantità di carta-moneta senza precipitare nel disastro perché aveva una banca nazionale svincolata dal potere politico e perché offriva in garanzia il suo primato nel commercio mondiale. Le condizioni generali dell’economia francese non erano, né all’inizio né alla fine del XVIII secolo, così solide da giustificare emissioni tanto massicce di carta-moneta.

E qui subentra la presunzione dello Stato: esso aveva ereditato dall’Ancien règime l’idea secondo la quale l’onnipotenza del re e di conseguenza dei suoi amministratori poteva cambiare a piacimento le regole del gioco monetario. Così era stato per secoli, quando i sovrani avevano disposto senza limiti del patrimonio dei loro cittadini. La rivoluzione aveva fatto saltare questa inattaccabile consuetudine, ma non aveva offerto un’alternativa.

Foto 9 | Promessa di mandato territoriale. Emissione del 28 ventoso anno IV, 18 marzo 1796. Tagli da 25, 100, 200, 500, in nero o in rosso. Simbolo della Costituzione

 

Come noterà Tocqueville pochi decenni dopo la caduta della Repubblica, questa mentalità non scompare con l’Ancien règime, ma torna di prepotenza con Napoleone, un nuovo sovrano assoluto. Il vecchio regime riappare nel franco germinale, così somigliante alla lira tornese del 1726, e nella mentalità dei francesi, che ancora alla vigilia della seconda guerra mondiale preferivano la moneta sonante al biglietto di banca.

La Rivoluzione non poté sradicare un sistema di pensiero vecchio di centinaia di anni, perché non si può cancellare una società e ricrearne una nuova: la grande vittoria postuma dell’Ancien règime sarà proprio ciò che i rivoluzionari avevano combattuto con più determinazione, il trionfo dell’assolutismo.