A fine ‘700 il Regno di Napoli coniò quattrini per i Reali Presidi: ricompensa all’enclave toscana per la sua fedeltà o necessità di circolazione?

 

di Riccardo Martina | Orbetello, Talamone e l’Argentario, ultimi lembi costieri nella Toscana meridionale, oltre ad essere unanimemente apprezzate dai turisti per le bellezze naturali, le spiagge dorate, il mare , la natura incontaminata dove prosperano la flora e la fauna mediterranee, custodiscono fieramente vestigia storiche di un passato glorioso, sia recente – con la memoria che corre immediatamente alle trasvolate atlantiche del secolo scorso – sia lontano nel tempo, basti pensare alla colonia romana di Cosa, fondata nel 273 a.C.

I Reali Presidi: un quadro storico di sintesi

Ma l’epoca nella quale la Costa d’Argento interpretò un ruolo degno di nota sul palcoscenico della storia italiana ed europea, coincise con il periodo dello Stato dei Presìdi. In seguito al trattato di Firenze del 1557 e alla successiva pace di Cateau-Cambrésis (1559), i territori della scomparsa Repubblica di Siena furono assegnati al duca di Toscana Cosimo I de’ Medici, ad eccezione di alcuni presidios che Filippo II, re di Spagna, volle riservarsi per il controllo navale della costa tirrenica e per garantire approdi sicuri alle sue navi.

A sinistra, ritratto del re di Napoli Ferdinando IV di Borbone e, a destra, collocazione dei Reali Presidi sulla costa toscana

Orbetello, Talamone, Porto Ercole, Porto Santo Stefano e, dal 1603, Porto Longone (oggi Porto Azzurro) all’Isola d’Elba, per un totale di circa trecento km2 e cinquemila abitanti, andarono a costituire il cosiddetto Stato dei Presìdi, un’entità statale atipica nel contesto italiano [1]: dipendente formalmente dalla Spagna, seguì le sorti del Regno di Napoli, nel periodo di dominazione spagnola prima (1557-1707), poi austriaca (1707-1737) e infine borbonica (1737-1801). Fu Napoleone nel 1801 a porre fine, dopo 250 anni, ai Reali Presidi di Toscana, annettendoli al Regno d’Etruria.

Gli spagnoli, insediatisi nei nuovi possedimenti, provvidero a fortificare i porti con numerose e imponenti opere, la maggior parte delle quali ben conservate e visibili ancora oggi, affinché i presidios potessero adempiere alla loro funzione di sentinelle del Tirreno. La vita per la popolazione e la guarnigioni di stanza nelle piazzeforti fu relativamente tranquilla, fatte salve le ricorrenti incursioni barbaresche e, soprattutto, l’assedio francese del 1646, che tanta eco ebbe nelle cancellerie di mezza Europa.

A sinistra, l’assedio di Orbetello in un’antica stampa e, a destra, un altro dettagli di antica mappa dei Reali Presidi napoletani

In sintesi, durante la guerra dei Trent’anni, il cardinale Mazzarino, plenipotenziario dell’infante Luigi XIV, tentò di conquistare i presìdi toscani per spezzare l’egemonia spagnola nella penisola, assicurandosi le basi dalle quali poter infastidire lo Stato Pontificio, il Regno di Napoli e i collegamenti con la Spagna. Il corpo di spedizione, al comando del principe Tommaso di Savoia-Carignano, assediò Orbetello, la capitale de facto dei presìdi, per tre mesi. La guarnigione spagnola, con il pieno della popolazione civile, resistette strenuamente fino all’arrivo dei soccorsi inviati da Napoli. Costretti a ritirarsi, i francesi ritentarono l’attacco dopo qualche mese, stavolta però contro la base di Portolongone, espugnandola e mantenendone il possesso per quattro anni, quando ritornò in mano spagnola.

La circolazione monetaria nei Reali Presidi

Benché dotato di un certo grado di autonomia politica e amministrativa, lo Stato dei Presìdi non ebbe mai, tra le sue prerogative, quella di battere moneta propria. D’altronde, dal punto di vista numismatico, la Maremma può vantare ben pochi centri ove siano attestate zecche e la coniazione fu peraltro circoscritta in un lasso temporale limitato a pochi anni: oltre all’etrusca Populonia e alla già citata colonia di Cosa, ricordiamo, in epoca medievale, Sovana, Santa Fiora e Massa Marittima, i cui grossi e denari (o piccioli) sono considerati molto rari e assai ricercati dai collezionisti.

Ma se Orbetello e gli altri centri dello Stato dei Presidi non ebbero mai il privilegio di essere sedi di zecca, l’unica consolazione numismatica per gli ex sudditi del re di Napoli consistette nel poter vantare l’iscrizione REALI PRESIDII impressa su una serie di monete in rame di fine Settecento: di ciò si deve dar merito a Ferdinando IV di Borbone che, a partire dal 1782, dispose la coniazione di una moneta spicciola destinata alla circolazione nell’enclave toscana del regno. Appena in tempo, visto che dopo pochi anni dall’ultima emissione (1798), il ciclone napoleonico abbattutosi sull’Italia, segnò, come detto, la fine del piccolo stato.

Dal punto di vista commerciale, nei presìdi le monete di riferimento erano le napoletane e le romane, la prima per ragioni politiche e finanziarie in quanto valuta “ufficiale”, la seconda per i rapporti commerciali con i viciniori centri laziali di Civitavecchia, Viterbo e Roma. La documentata circolazione di valuta genovese, spagnola, napoletana, toscana e pontificia è, peraltro, indice di un’intensa attività commerciale e produttiva in Orbetello e dintorni.

Quattrino in rame anno 1782 per i Reali Presidi (collezione privata)

Ma se il ducato romano e napoletano costituivano le monete di riferimento per il commercio all’ingrosso e gli affari finanziari, tra il popolino si faceva di conto con la lira toscana e i suoi derivati. I nominali più bassi (soldi e denari e relativi multipli e sottomultipli) erano i più diffusi tra gli abitanti per gli acquisti quotidiani, generi alimentari in primis. Se ne deduce che questo settore fosse appannaggio dei mercanti toscani, essendo attestato un fitto interscambio di import-export, con Siena e il Lazio, di prodotti agricoli quali vino, olio e cereali, legna, pesce fresco e salato, manifatture e materie prime. Fu essenzialmente per questi motivi che a Napoli si ritenne opportuno battere i pezzi in rame per i Reali Presìdi secondo il sistema monetario toscano anziché napoletano.

Siamo di fronte a un caso particolare dal punto di vista numismatico, ovvero di monete battute nella zecca di Napoli in un nominale toscano, che ripropone la vexata quaestio della catalogazione di questi quattrini: sono da considerarsi monete toscane o napoletane? Essendo stati coniati con decreto di re Ferdinando IV nella zecca di Napoli, tanto basterebbe per includerli nell’alveo della monetazione napoletana e, nello specifico, borbonica. Ma il nominale (il quattrino) è estraneo al sistema monetario napoletano – basato per le monete in rame su grani, tornesi e cavalli [2] – così come toscana fu l’area di circolazione, e questi due parametri legittimerebbero, invece, il pieno diritto di ammissione nei cataloghi delle monete toscane. Sottolineiamo che il criterio della zecca di emissione non è stato mai così stringente per la classificazione tra gli addetti ai lavori, se già un eminente numismatico come l’Ambrosoli asseriva che “sin che si mettono sotto Zara le monete battute a Venezia per la Dalmazia, mi pare evidente che si possano assegnare, per analogia, ad Orbetello le monete battute a Napoli pei Reali Presidii” [3].

Due quattrini in rame anno 1782 per i Reali Presidi (collezione privata)

Infatti, anche il Corpus Nummorum Italicorum (CNI) – seguendo un criterio geografico “regionale” – al volume XI, dedicato alle monete toscane, riporta i nostri quattrini sotto la voce Orbetello [4], omettendoli nel volume XX dedicato alla zecca di Napoli. Di contro, il parametro dell’autorità emittente ci obbliga a includere nella monetazione di Ferdinando IV anche i quattrini toscani: citazione obbligata per il volume Le monete di Napoli[5], curato da Michele Pannuti e Vincenzo Riccio che, a quasi quaranta anni dalla sua pubblicazione, costituisce ancora oggi un valido punto di riferimento per la monetazione napoletana.

Nella collana Monete Italiane Regionali (MIR), i quattrini per i Presìdi sono riportati sia nel volume dedicato alle zecche minori toscane [6] sia in quello rivolto alla monetazione napoletana [7]. Oggi è lasciato alla sensibilità dei curatori dei cataloghi d’asta, dei prezziari in commercio e delle opere editoriali, includere i quattrini di Ferdinando IV indifferentemente sotto “Napoli”, precisandone però l’emissione per i Reali Presìdi di Toscana, o viceversa sotto “Orbetello”, specificandone la coniazione nella zecca di Napoli. Lasciamo invece al gusto personale di collezionisti ed appassionati di monete toscane o napoletane, la facoltà di aggiungere ai loro medaglieri queste simpatiche monetine in rame.

Dunque, pur essendo un territorio di limitate dimensioni, la posizione privilegiata al confine fra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, rendeva lo Stato dei Presìdi crocevia di importanti rotte commerciali, con conseguente abbondante circolazione di monete di varie valute e di diversi sistemi monetari, creando spesso gran confusione e difficoltà nei cambi. Così, per evitare equivoci e malintesi, nei contratti di compravendita si usava solitamente specificare la valuta di riferimento impiegata per i pagamenti. Fin dal suo insediamento, il governo di Ferdinando IV ebbe fra le sue priorità quella di migliorare e dare una sistemazione organica alla disastrosa situazione della monetazione del regno di Napoli.

Nel 1759 si ordinò “per rimediare alli sconcerti che si sperimentano nei Regj Presidj di Toscana, per cagione di quei quattrinelli informi che ivi correvano per monete” [8]. La situazione del circolante in rame era preoccupante non solo nell’enclave toscana ma in tutto il regno. Infatti “queste monete, consunte e svalutate e ridotte appena ai 2/3 del peso originale, erano causa di gravi e seri danni al piccolo commercio e alla popolazione, la quale soffriva non poco, giacché, la moneta, ridotta in tale stato, veniva da tutti rifiutata e dava origine a violenti e micidiali risse fra compratori e venditori” [9].

Quattro quattrini in rame anno 1782 per i Reali Presidi (collezione privata)

Un primo tentativo del governo napoletano per trovare una soluzione al problema fu quello di sostituire i quattrini “deformi” con i nominali correnti nel regno, rivelatosi però infruttuoso giacché “nuovi inconvenienti nascevano dal far correre in quej Regj Presidj la nostra moneta di rame per lo stesso valore, che ha nel Regno” [10], si presume per le difficoltà nei rapporti di cambio con il sistema monetario toscano. Si propose allora che “per sostituirsi alli aboliti quatrinelli dovesse farsi una nuova moneta tutta particolare per quei regj Presidj; sicché fuori di essi non potesse aver corso, e che oltre all’impronto, o dell’effigie di V.M. o delle sue Reali armi, avesse un distintivo che la distinguesse da ogni altra moneta secondo il disegno che la R.a Camera ne ha umiliato a V.M.” [11].

Per la particolare zona di circolazione cui era destinata, si rendeva necessaria l’accortezza “che tal moneta dovesse farsi di minor peso delle monete di rame di questo Regno, acciocché avesse proporzione col valore che ivi hanno le monete d’argento e di oro” [12]. A ciò fece seguito, nel 1769, un “dispaccio” con il quale si ordinava la coniazione della nuova moneta in rame [13]. Dovettero però trascorrere anni, fra progetti presentati e bocciati, costosi o non graditi al re, prima che le nuove monete vedessero la luce: a Napoli si dovrà attendere il 1788, mentre la prima emissione per i Reali Presìdi fu battuta nel 1782. In seguito, la coniazione dei quattrini venne replicata in altre due tornate, nel 1791 e nel 1798.

Riepilogando, sotto Ferdinando IV di Borbone si coniarono, nel 1782, 1791 e 1798 monete del valore da 4, 2 e 1 quattrino. Essendo il quattrino pari alla 400esima parte del ducato napoletano, corrispondeva, in peso e diametro, alla moneta da 3 cavalli in corso nel regno. Quindi, il 2 quattrini equivaleva al tornese da 6 cavalli e il 4 quattrini al grano da 12 cavalli. Dall’analisi di alcuni documenti d’archivio pubblicati nel 1972 [14] e nel 1986 [15] sul Bollettino del Circolo Numismatico Napoletano, si è tentato di quantificare, mediante calcoli e ragguagli, le tirature teoriche della prima e dell’ultima “liberata”: nel 1782 potrebbero essere stati battuti circa 125.000 esemplari da 4 quattrini, 61.000 da 2 e 64.000 da un quattrino, mentre nel 1798 rispettivamente circa 137.000, 87.000, 168.000 pezzi.

Rimarrebbe da approfondire un’ultima considerazione. Nessun sovrano spagnolo, austriaco o napoletano, fino a Ferdinando IV, aveva ravvisato la necessità, o l’utilità, per oltre due secoli, di dotare lo Stato dei Presìdi di una monetazione propria. Varie le ipotesi avanzate dagli studiosi, fra le quali sono generalmente riconosciute le ragioni di praticità come moneta di conto e di facilitazione per il commercio al minuto. Secondo Franca Maria Vanni, autrice della voce “Orbetello” nell’opera Zecche d’Italia a cura di Lucia Travaini, l’emissione attestata solo negli anni 1782, 1791 e 1798 “induce ad ipotizzare che la produzione venisse effettuata non continuativamente, ma solo quando lo richiedeva la mancanza di circolante minuto” [16], mentre Pietro Fanciulli, nel suo corposo studio documentario [17], non ritiene che la necessità della coniazione sia stata intrinsecamente collegata alla situazione monetaria, vista l’abbondanza di circolante nelle più disparate valute.

Invero, secondo Fanciulli, il motivo della coniazione dei quattrini sarebbe stato più formale che sostanziale: Ferdinando IV volle, nella sua munificenza, che su alcuni tagli della monetazione napoletana comparisse la scritta REALI PRESIDII, in omaggio alla fedelissima città di Orbetello, come segno di riconoscenza per la lealtà e la fedeltà alla corona mostrate dagli abitanti. Non ultimo, la diffusione, tra i sudditi e i mercati, dell’immagine del re strettamente collegata al nome dei Presìdi, avrebbe costituito un’azione di propaganda efficace e capillare, rimarcando, nel contempo, la sovranità di Napoli sui lontani domini toscani.

Le caratteristiche dei quattrini

Nel dettaglio, le serie dei quattrini coniate per i Reali Presidi (Figg. 1a, 1b e 1c) vedono come costante al diritto dei tre nominali, il profilo del re Ferdinando IV di Borbone volto a destra, lungo il bordo l’iscrizione latina abbreviata, sciolta in italiano in FERDINANDO IV PER GRAZIA DI DIO RE DELLE DUE SICILIE e, incisa sotto la testa, l’iniziale del cognome, a volte anche del nome, dell’incisore: per la serie del 1782, la sigla P (1 e 2 quattrini) o BP (4 quattrini) identificano la firma di Bernardo Perger, mentre la P o DP delle emissioni del 1791 e 1798 sono riferite al figlio Domenico, succeduto, come incisore in zecca, al padre morto nel 1786. Il rovescio presenta in alto la corona reale sovrastante l’epigrafe REALI PRESIDII, il nominale QVATTRINI, l’anno in cifre arabe, diviso in due dal valore espresso in cifre romane. Solo nei pezzi da 4 quattrini, lungo il bordo compaiono due rami di lauro legati in basso da un fiocco.

Figg. 1a, 1b, 1c (dall’alto in basso): le tre serie complete dei Reali Presidi, anni 1782, 1791 e 1792, proposte in asta NAC nel 2006 (lotti 1165, 1166, 1167)

Ai lati della corona leggiamo le due iniziali dei maestri di zecca: nei quattrini del 1782 (Fig. 2a) le lettere C-C indicano Cesare Coppola, in carica fino al 1790, sulle monete del 1791 (Fig. 2b) la sigla A-P identifica Antonio Planelli, attivo fino al 1803, mentre la sigla R-C sui nominali del 1798 (Fig. 2c) designa la Regia Corte, ovvero “la monetazione battuta a benefizio della Corte ed in particolare della regina Maria Carolina che utilizzava questi introiti anche per scopi politici” [18]. Anche i quattrini per i presìdi – come le altre monete napoletane coeve in rame – sono prive delle iniziali dei maestri di prova, ovvero, per completezza d’informazione, Giovan Battista Cangiano per la serie del 1782 e Raffele Mannara, attivo nel periodo delle emissioni del 1791 e del 1798.

Figg. 2a, 2b, 2c (da sinistra a destra): particolari della corona reale al rovescio dei quattrini del 1782, del 1791 e del 1792

In analogia alla monetazione borbonica del periodo, anche questi tondelli presentano numerose varianti di conio, alcune macroscopiche, quali la fattura delle corone e la disposizione delle cifre dell’anno, poste più in alto o alla stessa altezza del valore, nei 2 del 1791 (Fig. 3a) e nei 4 nell’1 del 1798 (Figg. 3b e 3c). Altre minime differenze si possono riscontrare nel numero delle foglie e delle bacche nei rami di alloro e, ovviamente, nei caratteri dei punzoni usati per realizzare le legende.

Figg. 3a, 3b, 3c (dall’alto in basso): particolari della cifra indicante il valore e della data al rovescio dei quattrini dei Reali Presidi

Proprio le evidenti e numerose anomalie riscontrare nelle “liberate” del 1798, hanno suscitato l’interesse degli studiosi della monetazione napoletana nel travagliato periodo rivoluzionario a cavallo del 1800. Nonostante la fuga della corte a Palermo e la proclamazione della Repubblica Napoletana nel 1799, l’attività della zecca non si interruppe e si iniziò – sotto la direzione giacobina – a coniare le monete repubblicane in argento e in rame. Per alcune furono approntati ex novo coni di ispirazione repubblicana, per altre si continuarono ad utilizzare i materiali giacenti in zecca con le precedenti impronte di Ferdinando IV. Ma gli ufficiali della zecca, rimasti fedeli alla deposta monarchia borbonica, si rifiutarono di “firmare” le nuove monete con le previste sigle del direttore, dell’incisore e del maestro di prova [19] e, secondo alcuni studiosi, ebbero, altresì, la scaltrezza di “marcarle” con segni convenzionali, al fine di renderle riconoscibili – e ritirabili – in previsione di un’eventuale restaurazione regia.

Tali marcature, non riscontrabili in alcuna documentazione dell’epoca, essendo l’operazione effettuata in segreto e a rischio della vita, sono state identificate dal Magliocca nei suoi recenti lavori, individuando segni, punti, trattini aggiunti o tolti e refusi nelle legende. Secondo l’autore, per sopperire alle mancanza di nominali quali il grano, il tornese e i tre cavalli, nel 1799 si coniarono monete equivalenti utilizzando anche i conii del 1798 dei quattrini per i Reali Presidi. Tali quattrini “repubblicani”, molto rari e anch’essi contraddistinti da “segni di riconoscimento”, sarebbero da individuarsi negli esemplari da 4 privi delle sigle R.-C. a fianco della corona (Fig. 4a), nei pezzi da 2 e da 1 con il doppio punto verticale (:) rispettivamente nella legenda dopo SICIL: (Fig. 4b) e nella C: a destra della corona (Fig. 4c).

Figg. 4a, 4b, 4c (da sinistra a destra): corona senza sigle su 4 quattrini 1798, particolare della legenda sui 2 quattrini 1798, dettaglio sigla su quattrino 1798

Appurato che effettivamente la serie dei quattrini del 1798 presenta varianti molto più numerose rispetto alle due emissioni precedenti, l’ipotesi formulata da Magliocca appare, benché teoricamente legittima e ammissibile, alquanto suggestiva. Il motivo principale è prettamente pratico: al popolino analfabeta sarebbero risultate quantomeno estranee queste monete con iscrizioni mai viste, così diverse dai grani, dai tornesi e mezzi tornesi che circolavano e si maneggiavano da oltre dieci anni. Ma il fascino della numismatica, per gli addetti ai lavori volenterosi e appassionati, risiede proprio nei margini, ancora ampi, di studio e di approfondimento su periodi storici travagliati e oscuri.

Alcuni rari esemplari di quattrini “ribattuti”

A titolo di curiosità citiamo i tre esemplari, a oggi noti, appartenenti alla categoria delle monete cosiddette “ribattute”, ovvero tondelli reimpressi con un nuovo conio per essere reimmessi in circolazione: subivano questa sorte le monete ritirate per svariati motivi (ad es. eccessiva usura o valuta straniera) e giacenti in zecca o le “prove” di progetti non approvati o non più realizzati. Nell’azione di ribattitura, non era raro che l’azione del conio non fosse perfetta e lineare e sul tondello rimanessero così tracce della precedente impressione.

Il primo esemplare, riportato già all’epoca del CNI [20], faceva parte della Collezione Reale di Vittorio Emanuele III conservata oggi presso il medagliere del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Si tratta di un pezzo da 4 quattrini 1782 ribattuto su una prova in rame da 6 ducati (Fig. 5a) di Carlo di Borbone (il padre di Ferdinando IV), re di Napoli dal 1734 al 1759. Tra le tracce visibili del precedente conio non compaiono purtroppo le cifre della data: possiamo solo ipotizzare che il tondello originale, essendo una prova, sia al massimo del 1749, primo anno di coniazione delle monete in oro da 6 ducati (Fig. 5b). Sul diritto sono leggibili parte della legenda (INFANS), la lettera D e il numero 6, oltre a tracce della corona e dello stemma reale; sul rovescio, sono visibili tracce della legenda CAR.D:G:VTR SIC.ET HIER.REX (CARLO PER GRAZIA DI DIO RE DELLE DUE SICILIE E DI GERUSALEMME).

Figg. 5a, 5b: 4 quattrini 1782 ribattuto su prova in rame 6 ducati (Museo Nazionale Romano) e moneta da 6 ducati in oro di Carlo di Borbone, anno 1749

Un altro esemplare, inedito e ancora di un 4 quattrini 1782, è apparso sul mercato nel 2016 e risulta reimpresso su una moneta da un grano di Carlo VI d’Asburgo (1707-1734) [21] (Fig. 6a). Stavolta la sorte è stata più benevola, in quanto sono sopravvissute alla ribattitura le ultime tre cifre della data: [1]719. Le monete in rame coniate durante il regno di Carlo VI, quali i tornesi datati 1714 e i grani del 1719, sono dai più ritenuti delle prove [22] e considerate della più estrema rarità.

Per citare un caso, un un grano del 1719, apparso in un’asta nel 2015 in conservazione “fior di conio”, fu proposto alla base a ben 30.000 euro (Fig. 6b). Nel diritto del 4 quattrini reimpresso sopravvivono elementi del rovescio del grano: oltre alle cifre della data [1]719, si leggono chiaramente, sopra la testa del sovrano, le lettere della legenda SICIL:REX e il bordo “pettinato” del grano. Altrettanto evidenti, sulla destra, sotto la frattura del tondello, il contorno di un’ovale e il piumaggio di un’ala, parti dello stemma di Napoli, ghermito dall’aquila austriaca insieme a quello della Sicilia, di cui si intuisce a malapena un tratto dell’ovale.

Figg. 6a, 6b: 4 quattrini 1782 ribattuto su grano 1719 (collezione privata) e grano del 1719 a nome di Carlo VI d’Asburgo

Sul rovescio, invece, le tracce della ribattitura sono più esigue: rimangono solamente, in basso, oltre a tracce del bordo, sotto il nodo dei due rami d’alloro, le lettere RO della legenda del diritto del grano CAR: VI D: G: ROM: IMP: S A:. Il rinvenimento di questa moneta è meritevole di indagini: appurato che almeno un tondello del grano del 1719 sia stato riutilizzato 63 anni dopo (!) per la prima emissione dei quattrini, è lecito chiedersi se, nell’occasione, furono riutilizzati tutti (o quasi?) i tondelli su cui erano state battute le prove del grano (fatto che ne giustificherebbe l’eccezionale rarità), e ancora, se si sia trattato di un errore oppure di una coniazione mal riuscita.

Oppure anche questa volta siamo di fronte a un esperimento? Perché infatti non ipotizzare una “prova” della nuova monetazione che si stava preparando per i Reali Presìdi? Considerando che la prima emissione di questa tipologia risale appunto al 1782, probabilmente, si utilizzò, come prova per il 4 quattrini, del metallo giacente in zecca da decenni ma che ben si prestava all’uso per peso e dimensioni. Infine, di un terzo esemplare di un 4 quattrini 1798 reimpresso su un grano di Ferdinando IV, citato in una nota di alcuni prezziari in commercio [23], a tutt’oggi, non si è potuto reperire alcun riscontro fotografico.

 

Crediti fotografici

Per le immagini del 4 quattrini anno 1782 ribattuto su una prova in rame da 6 ducati: © Soprintendenza speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’area archeologica di Roma. Servizio di Fotoriproduzione – Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo.

Bibliografia storica

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  • TRAVAINI, 2011 – Zecche d’Italia, Roma.

Note al testo

  • [1] Per maggiori approfondimenti sulla natura e l’organizzazione politico-amministrativa e il contesto sociale ed economico dello Stato dei Presidi, si rimanda alle opere citate in bibliografia.
  • [2] Il sistema monetale napoletano si basava sul ducato d’oro, corrispondente a 5 tarì e a 10 carlini, a 100 grana e a 1.200 cavalli. La moneta da 4 quattrini per i Reali Presìdi venne coniata ufficialmente al peso di 7 trappesi, lo stesso della moneta da un grano. Pertanto, 4 quattrini corrispondevano a un grano, 2 quattrini a un tornese (½ grano) e un quattrino a 3 cavalli (½ tornese e ¼ di grano).
  • [3] S. AMBROSOLI, 1881, p. 23.
  • [4] Corpus Nummorum Italicorum, vol. XI, 1929, pp. 263-265.
  • [5] M. PANNUTI – V. RICCIO, 1984, pp. 250-252.
  • [6] A. MONTAGANO, 2009, pp. 160-161.
  • [7] D. FABRIZI, 2010, pp. 238-239.
  • [8] G. BOVI, 1972, p. 10.
  • [9] C. PROTA, 1922, p. 38.
  • [10] G. BOVI, 1972, p. 10.
  • [11] G. BOVI, 1972, p. 10.
  • [12] G. BOVI, 1972, p. 10.
  • [13] C. PROTA, 1921, p. 25.
  • [14] G. BOVI, 1972, pp. 14-15.
  • [15] M. PANNUTI, 1986, pp. 44-48.
  • [16] L. TRAVAINI, 2011, p. 956.
  • [17] P. FANCIULLI, 1999, p. 330.
  • [18] M. PANNUTI – V. RICCIO, 1984, p. 226.
  • [19] C. PROTA, 1921, p. 33.
  • [20] Corpus Nummorum Italicorum, vol. XI, 1929, p. 264.
  • [21] R. MARTINA, 2016, pp. 27-30.
  • [22] M. PANNUTI–V. RICCIO, 1984, p. 204; A. D’ANDREA–C. ANDREANI–S. PERFETTO, 2011, p. 462.
  • [23] F. GIGANTE, Monete Italiane dal ‘700 all’euro, 2021, p. 553.