Due coniazioni in argento risalenti alla prima metà dell’800 | Nella storia delle medaglie del Seminario un argentiere, un santo quasi sconosciuto e i suoi simboli

 

di Roberto Ganganelli | E’ il 1565, il Concilio di Trento è terminato da appena due anni e, nella diocesi umbra di Città di Castello, il vescovo Costantino Banelli indice un sinodo per l’applicazione dei decreti emanati dalla storica assemblea della Chiesa cattolica (cfr. Ascani Angelo 1963, Seminario tifernate, Ipsia, Città di Castello, pp. 13-14).

Tra le direttive tridentine vi è quella di istituire seminari per la formazione dei sacerdoti per cui il clero cittadino si adopera, da subito, cercando fondi, precettori, una sede adeguata. Il primo statuto viene approvato il 21 aprile 1571 ed è redatto da monsignor Paolo Maria Della Rovere, visitatore apostolico e vescovo di Cagli (ibid., pp-61-71).

Affinché, tuttavia, la sede attuale del Seminario Vescovile tifernate venga completata ci vorrà tempo – fino al 1752 – ma nel frattempo l’istituzione forma generazioni di parroci e di giovani laici appartenenti alle migliori famiglie della diocesi o provenienti da territori limitrofi.

A sinistra, una rarissima stampa che mostra la facciata settecentesca del Seminario Vescovile di Città di Castello; a destra, l’unica medaglia papale annuale dedicata alla città umbra, quella del 1785 di Pio VI per gli Ospedali Uniti tifernati

Le medaglie del Seminario tifernate

Al Seminario di Città di Castello sono da attribuire due rarissime medaglie premio in argento che si collocano nella prima metà del XIX secolo. La prima misura mm 35,50 di diametro per g 11,50 di peso; sul dritto, nel campo, una scure con la lama a destra, due fronde di palma incrociate in basso, tre stelle a sei punte in alto, una sopra la scure e due ai lati; nel giro + COLLEG: ET . SEMINARIUM . TIFERNATEN: da ore 6. Al rovescio due fronde d’alloro legate in basso da un nastro; nel campo su tre righe PREMIUM STUDENTIBUS DECRETUM. La seconda, sempre in argento, misura invece mm 30,80 per g 7,50 e ha gli stessi soggetti, sebbene impressi con coni differenti.

Sulla medaglia di modulo maggiore sono apposti due punzoni: quello con tiara papale, chiavi decussate e in basso la lettera P, definito “bollo per lavori minuti per il titolo a 889 millesimi” in uso dal 1815 al 1870 e uno, di forma romboidale, che riporta le lettere C : C, ai lati R R, in passo P. Sulla medaglia più piccola manca il bollo con chiavi e tiara.

Le medaglie del Seminario di Città di Castello coniate nel primo Ottocento: ecco la versione in argento, grande, che misura mm 35,50 per g 11,50 di peso

Raffaello Ricci, argentiere e “medajaro” del XIX secolo

Il punzone è da attribuire a Raffaello Ricci, argentiere di primo piano in città che sappiamo essere scomparso nel 1860. Come ci ricorda Alvaro Tacchini, “Alla metà del XIX secolo figuravano come argentieri in città Raffaello Ricci, David Santi e Antonio Branca (‘argentiere in solfo’). Il no­me di Santi compare talvolta come produttore delle ‘medaglie e croci d’argento per premio ai giovani studenti del ginnasio’. Santi faceva ancora l’orefice nel 1865, anno in cui dichiarò di tenere due lavoranti.

Era però il laboratorio di Raffaello Ricci, al n. 8h dell’attuale corso Cavour, quello con maggior prestigio e giro d’affari. Ricci, che si dichiarava anche ‘gioielliere fabbricante’, fu autorizzato a esercitare l’arte dell’oreficeria nel 1826.

Come i suoi predecessori, ebbe mo­do di lavorare per la Cattedrale. Fabbri­cò patene d’argento e medaglie, sempre in ar­gento, per la premiazione dei ‘chierici studen­ti’ e altre ‘di peso una libbra e sei ottave’ per gli allievi del ginnasio […]” (cfr. Alvaro Tacchini 2000, Artigianato e industria a Città di Castello tra Ottocento e Novecento, Petruzzi Editore, Città di Castello, pp. 231-233). La ditta Ricci rimase attiva fino ad inizio XX secolo.

Le medaglie del Seminario tifernate: la versione in argento, piccola e forse successiva alla precedente, che misura mm 30,80 per g 7,50 di peso

Documenti d’archivio e ipotesi di datazione

Per una datazione più esatta delle medaglie ci siamo avvalsi dell’Archivio Storico Diocesano che – tra le circa diecimila unità archivistiche che conserva, con un arco cronologico da metà dell’XI all’inizio del XXI secolo – comprende anche i libri mastri di amministrazione del Seminario, gli unici in cui si siano ravvisati dei dati significativi per la nostra ricerca.

In quello relativo al periodo 1816-1833, in particolare, compaiono riferimenti interessanti: p. 190, nel bilancio dal 1° settembre 1826 al 31 agosto 1827 “spesi per la premiazione dei giovani 23. 95. -”; p. 280, nel bilancio dal 1° settembre 1827 al 31 agosto 1828 “spesa di premi per gli Alunni 20. -. -”; p. 227, nel bilancio dal 1° settembre 1828 al 31 agosto 1829 “spesi per la premiazione degli Alunni 22. 85. -“; p. 241, nel bilancio dal 1° settembre 1829 al 31 agosto 1830 “spese di Accademia, e Premiazione ai Giovani 20. 94. -“; e ancora a p. 253, nel bilancio dal 1° settembre 1830 al 31 agosto 1831 “Spese per la Premiazione, e Accademia 18. 72. -“; infine a p. 265, nel bilancio dal 1° settembre 1831 al 31 agosto 1832 “Premiazione dei Giovani 19. 65. -“.

A sinistra, il punzone con le chiavi e la tiara che identificava gli argentieri autorizzati ad operare nello Stato Pontificio; in alto, il punzone romboidale di Raffaello Ricci; in basso, carta intestata degli eredi dell’artigiano risalente ad inizio Novecento

Le medaglie, dunque, furono probabilmente coniate negli anni tra il 1826 e il 1832 anche perché un solo riferimento ulteriore si trova nel successivo libro mastro, quello che copre il periodo 1834-1860. In Clero Diocesano / Serie Seminario / Unità archivistica n. 2 / Anni 1851-1861, infatti, nella Minuta di bilancio preventivo dal 1° settembre 1851 al 31 agosto 1852 alla voce Passivo si legge “Premiazione s. 16. -“. Se nell’occasione vennero coniate tuttavia medaglie, con simile o diversa impronta, non è dato sapere.

Valore del denaro e costo della vita negli Stati della Chiesa

Gli importi si collocano nei pontificati di Leone XII, Pio VIII e Gregorio XVI e sono espressi secondo la convenzione del tempo ossia in scudi, baiocchi, quattrini. Lo scudo d’argento pesava 26,43 grammi a 917 millesimi di titolo e valeva cento baiocchi di rame suddivisi, ciascuno, in cinque quattrini. Per quanto riguarda il potere d’acquisto dello scudo, sappiamo ad esempio che nel 1830-1860 un capo ufficio della polizia percepiva un salario di circa 60 scudi mensili, un sottosegretario di polizia 40, un commesso di prima classe della pubblica amministrazione circa 20 scudi e uno di seconda classe non più di 15.

Il bellissimo scudo in argento di Pio VIII coniato a Roma e Bologna nel 1830 (mm 38,00 per g 26,43) con al rovescio i santi Pietro e Paolo

Operai e braccianti venivano pagati a giornata e ricevevano mediamente un paolo (cioè dieci baiocchi) per ogni giorno di lavoro. In un mese di 26-27 giornate di lavoro, quindi, un bracciante non arrivava a guadagnare tre scudi. Le donne invece, per una giornata non ricevevano che quattro o cinque baiocchi. Un’idea del costo della vita a Città di Castello come nello Stato Pontificio si può avere considerando che il pasto di un uomo poteva essere costituito da “un baiocco di pane e formaggio”.

Questi dati storico economici evidenziano come il Seminario Vescovile destinasse una cifra annua non indifferente – in media, una ventina di scudi – alle premiazioni ed è probabile che buona parte venisse speso per le medaglie realizzate dal Ricci. Medaglie di buona fattura, sia dal punto di vista incisorio che della qualità di coniazione, a riprova di come l’argentiere tifernate fosse qualificato come lo descrivono i documenti del tempo e di come l’arte di “stampar medaglie” fosse diffusa anche nei centri minori.

San Ventura da Città di Castello, un martire dimenticato

Per quanto riguarda il soggetto delle coniazioni, si tratta di una rielaborazione dell’emblema del Seminario di Città di Castello che, nella sua forma originale – la si può ammirare in alcuni stucchi sulle scalinate del palazzo – prevede un’ascia e una fronda di palma incrociate. I due simboli fanno riferimento a san Ventura da Città di Castello, vissuto nel XIII secolo. Rettore di una chiesetta presso Valdipetrina, sacerdote “pio e zelante”, narrano le cronache che un giorno si imbatté in un mulattiere il quale, tagliando legna nel bosco, bestemmiava rabbiosamente. Ventura lo riprese e l’uomo, infuriato, lo uccise con un colpo d’ascia nascondendone corpo sotto un mucchio di pietre.

A sinistra, affresco raffigurante san Ventura nella Cattedrale di Città di Castello; al centro, immaginetta devozionale con la scena del martirio; a destra, stemma dei marchesi Bufalini che donarono l’urna per le reliquie

Era il 7 settembre 1250 e, secondo l’agiografia, una colomba percosse col becco la campana della chiesa del santo, facendola suonare a lutto, per poi volare su quel mucchio di pietre e tornare di nuovo alla chiesa. La gente, accortasi del fatto, si mise alla ricerca del sacerdote i cui resti, una volta ritrovati, vennero seppelliti nella chiesa che divenne meta di pellegrinaggio.

Il 17 luglio 1684, il vescovo Giuseppe Sebastiani fece traslare in città le reliquie di Ventura per collocarle nella chiesa del Seminario in un’urna dorata, dono del marchese Filippo Bufalini. Infine, nel 1752, il vescovo Giovanni Battista Lattanzi, all’apertura del riedificato Seminario, consacrò l’istituzione al martire oltre che all’Immacolata e al patrono locale san Florido.

Sulle medaglie del Seminario tifernate campeggia lo stemma dell’istituzione ecclesiastica che qui vediamo nella versione completa (a sinistra) e in quella semplificata, in stucchi bianchi e neri, che adorna gli scaloni del palazzo settecentesco (a destra)

Il santo è raffigurato con l’ascia conficcata in testa, al momento del martirio, come in un quadro disegnato da Gian Ventura Borghesi e dipinto da Simone Nelli di Citerna nel XVII secolo per l’altar maggiore della chiesa del Seminario. Una statua in stucco seicentesca si trova nel Santuario di Belvedere. Nella Cattedrale tifernate vi sono, infine, tre sue immagini: un affresco nella cappella del Santissimo Soccorso, opera di Bernardino Gagliardi; in gloria assieme ad altri santi tifernati, negli affreschi di Marco Benefial sulla volta del presbiterio; in quelli della cupola, opera di Tommaso Conca.

Il vescovo Sebastiani – riportando in città le spoglie del martire Ventura – aveva dunque voluto offrire ai giovani seminaristi un modello di santità legato alla storia della Diocesi. Fu così che l’ascia e la palma del martirio finirono sulle medaglie destinate ai chierici meritevoli assieme a tre stelle che, nel linguaggio dell’araldica, indicano una guida sicura, l’aspirazione a cose superiori e richiamano la Trinità.