In argento, criptica e rarissima, iniziò a circolare dopo la morte di Bernabò nel 1385 e venne bandita da Gian Galeazzo per il suo oscuro significato

 

a cura della redazione | All’età di quarant’anni, quando era ancora nel pieno del vigore e con le mani ben salde sulle redini del potere, Bernabò Visconti (1354-1385) ordinò il proprio monumento funebre.

Il maestoso monumento funebre a Bernabò Visconti oggi al Castello sforzesco di Milano
Il maestoso monumento funebre a Bernabò Visconti oggi al Castello sforzesco di Milano

Correva l’anno 1363 quando incaricò della sua realizzazione Bonino da Campione il maggior rappresentante di quella corporazione di scultori, i “maestri campionesi”, che in Lombardia e in altre regioni del Nord Italia aveva dato connotatazioni epiche allo stile romanico trasfondendo nelle proprie opere principalmente statue, quella raffinatezza e quel potere espressivo che avrebbero poi caratterizzato il gotico.

Il monumento funebre del fiero Bernabò Visconti

Bernabò, per meglio rappresentare l’immagine che aveva di sé, scelse un ritratto equestre, in armi e in atteggiamento imperioso. Ai piedi della cavalcatura, in dimensione più piccola, volle che fossero collocate due delle quattro virtù cardinali, la Fortezza e la Giustizia. L’aver escluso Prudenza e Temperanza, del tutto aliene al suo modo di intendere il potere e l’esistenza, ci appare perfettamente coerente.

Alla ricerca delle ragioni di quella insolita e prematura committenza, possiamo notare che in quello stesso anno, Bernabò era stato scomunicato da Urbano V per essersi rifiutato di partecipare alla Crociata contro i Turchi e questo evento può indurci a pensare che nella posizione di “maledetto” dalla Chiesa, fosse sua volontà di provvedere con la dovuta pompa alla sua ultima dimora, dal momento che, se fosse sopraggiunto inaspettato il momento fatale, nessuno avrebbe voluto o potuto metter mano a questo impegno.

La precauzione si rivelò di notevole preveggenza, anche senza annettere eccessiva importanza alla scomunica, perché era quasi una tradizione per i Visconti collezionare anatemi, scagliati e poi annullati, a seconda di dove spirasse il vento della diplomazia.

Fiorino d'oro a nome di Bernabò Visconti con al dritto, ai lati del cimiero, le lettere gotiche D B, iniziali della legenda DOMINVS BERNABOS
Fiorino d’oro a nome di Bernabò Visconti con al dritto, ai lati del cimiero, le lettere gotiche D B, iniziali della legenda DOMINVS BERNABOS

È probabile perciò che al momento della folgore papale egli provasse solo disprezzo e risentimento. A parte le considerazioni di ordine pratico – che possono averlo indotto a ordinare una statua sepolcrale – resta, come motivo di fondo che qualsiasi scelta, anche la più giustificabile sul piano razionale, reca in sé una motivazione profonda.

Un ambivalente rapporto con la morte

Nel caso di Bernabò e del suo desiderio di avere sott’occhio la propria immagine funebre, questa ci appare come un ambivalente rapporto con l’impulso di morte. Tutta l’esistenza di questo personaggio é costellata di vittime; nella vendetta contro i singoli, nella conquista di città, la sua moneta corrente era la morte.

Beranbò Visconti e Regina della Scala in un affresco: il falcone nella sua mano esalta lo spirito guerriero del personaggio, il cane in braccio alla moglie la fedeltà
Beranbò Visconti e Regina della Scala in un affresco: il falcone nella sua mano esalta lo spirito guerriero del personaggio, il cane in braccio alla moglie la fedeltà

Non una morte rapida e pietosa, ma spesso differita con le torture, quasi un prolungamento del proprio potere; potere di morte come affermazione di ruolo e in un certo senso di identità, come antidoto alla paura di perderla per sempre.

In quest’ottica, il potere supremo, nel delirio di onnipotenza spinto fino al parossismo di voler controllare la propria morte, può avere preso corpo e forma nella possente figura marmorea che Bernabò si recava quasi quotidianamente a contemplare nella penombra dell’abside della chiesa di San Giovanni in Conca dove l’aveva fatta collocare.

Bernabò Visconti é emblematico dei signori della guerra: dispotico, superbo e irriverente al punto di introdurre il ritratto di lui vivente, e per di più scomunicato, a turbare la sacralità di un luogo di preghiera.

Il monumento colpisce per la stretta connessione fra uomo e animale, per lo sguardo enigmatico che sembra ancorato al futuro e per la rigidità colma di angoscia, pegno del potere. Bernabò, dopo una vita all’insegna dell’avventura e della trasgressione, finì i suoi giorni nel castello di Trezzo d’Adda dove l’aveva fatto rinchiudere e poi uccidere, con del veleno messo in una scodella di fagioli di cui era ghiotto, il nipote e rivale Gian Galeazzo.

Pegione in argento coniato a Milano nel periodo della signoria di Bernabò Visconti
Pegione in argento coniato a Milano nel periodo della signoria di Bernabò Visconti

La fama popolare circondò i suoi ultimi mesi di vita e volle attribuirgli un motto, nel dialetto milanese di allora che si disse inciso sul muro di una torre del castello di TrezzoMi a ti e ti a mi” (“Io a te e tu a me”) frase lapidaria che se fosse stata vergata veramente da Bernabò, com’è spesso consuetudine dei reclusi, andrebbe interpretata come un’esplicita ammissione di colpa: il trattamento ricevuto dal nipote sarebbe stato quello stesso che lui, a sua volta, gli stava preparando. Ma forse questa è una versione fatta circolare da Gian Galeazzo Visconti (1351-1402) che nessuna ricostruzione dei fatti è riuscita a provare.

Una misteriosa tessera per la fine di un uomo controverso

Il racconto della morte di Bernbbò ci arrìva invece scarno e privo di forti tinte. A prevalere è l’aspetto edificante: il signore spodestato, durante la prigionia aveva compiuto un lungo cammino interiore prendendo una nuova coscienza di sé.

Il 18 dicembre 1385, all’età di sessantadue anni, con somma devozione e gli occhi pieni di lacrime prese i Sacramenti, chiedendo perdono al Signore dei peccati trascorsi, pronunciando, nel momento del trapasso, queste parole in latino: Cor meum contritum et humiliatum Deus meus non despicias (“Mio Dio non respingere il mio cuore contrito ed umiliato”).

Gian Galeazzo Visconti, nipote di Bernabò
Gian Galeazzo Visconti, nipote di Bernabò

Anche una tessera (o gettone) in argento, fatta probabilmente circolare dai suoi sostenìtori dopo la sua morte, porta le prime lettere di una frase, che accanto alle doti morali del personaggio, ne esalta certamente quelle di strenuo e indomito combattente.

Al dritto, in assenza di una legenda intesa in senso tradizionale compare l’impresa viscontea dell’elmo con cimiero ornato dal drago crestato con il saraceno nelle fauci. Ai lati, in caratteri gotici, le lettere D B iniziali di Dominus Bernabos sul cimiero le lettere, SO VF incusse.

Al rovescio, sempre in assenza di una legenda, sant’Ambrogio, mitrato e nimbato, in abiti e paramenti vescovili, seduto in cattedra di prospetto con staffile nella mano destra alzata e pastorale nella sinistra; ai lati le iniziali gotiche D B come già visto.

La rarissima e criptica tessera in argento, circolata anche come moneta, che apparve dopo la morte di Bernabò Visconti nel 1385: fu immediatamente fatta ritirare per ordine di Gian Galeazzo
La rarissima e criptica tessera in argento, circolata anche come moneta, che apparve dopo la morte di Bernabò Visconti nel 1385: fu immediatamente fatta ritirare per ordine di Gian Galeazzo

Le quattro lettere del cimiero preludono alla frase completa SOVFRIR MESTVET MESTVOTER SARV SOVFRIR, motto provenzale reso in francese e tradotto dal numismatico Giuseppe Gavazzi (Gnecchi Supplemento 1894, p. 27), riportato quindi da Carlo Crippa nel 1986 (vol. II p. 70 n. 2 di Monete di Milano) e da Mario Traina ne Il linguaggio delle monete a p. 411. “Souffrir m’est vertu, m’ [ais] est ruer sans volter souffrir”, vale a dire “Soffrire m’è virtù, ma è soffrire dare in volta [ritirarsi, Nda] senza tornare al contrattacco”.

Quanto questo motto inciso per esteso sul monumento funebre di Bernabò, oggi al Castello sforzesco di Milano, turbasse il perfido Gian Galeazzo, è intuibile da una sua grida del 5 giugno 1388 con la quale si proibiva la circolazione della tessera, in una sorta di damnatio memoriae nel tentativo esorcizzare la paura che lo zio gli faceva, anche da morto!