Con il Gran consiglio del 25 luglio 1943 si chiude anche la parabola della monetazione che dal 1936 aveva esaltato l’immagine del regime
di Antonio Castellani | Esattamente ottant’anni fa, tra il pomeriggio del 24 e la notte del 25 luglio 1943, il supremo organo del regime di Mussolini, il Gran Consiglio del fascismo, si riunisce per la prima volta dopo quattro anni. Lo sbarco degli Alleati in Sicilia del 10 luglio, infatti, ha fatto crollare il castello di carte su cui si reggevano le ormai labili speranze di una vittoria militare italiana e messo in gioco la stessa integrità territoriale del paese.
Un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, nel Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, porta alle dimissioni di Mussolini da capo del Governo
I gerarchi si riuniscono attorno a un tavolo a forma di U nella “Stanza del pappagallo” di Palazzo Venezia, tutti in uniforme con sahariana nera. Tra i presenti alla riunione, il presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Dino Grandi, il quadrumviro Emilio De Bono, il segretario del PNF Carlo Scorza, il presidente dell’Accademia d’Italia Luigi Federzoni, Roberto Farinacci, Giuseppe Bottai e il genero del duce, Galeazzo Ciano.
Durante la seduta, iniziata con un intervento di Mussolini sulla situazione militare italiana, Dino Grandi presenta un ordine del giorno che accusa il regime di aver compromesso gli interessi nazionali portandola sull’orlo della sconfitta e dopo la votazione – 19 favorevoli, 8 contrari, un astenuto – nel pomeriggio di quel fatidico 25 luglio 1943 il duce sale dal re Vittorio Emanuele III a Villa Savoia e rassegnando le dimissioni da capo del governo.
Alla notizia che il maresciallo Pietro Badoglio è il nuovo primo ministro e che “la guerra continua” gli italiani reagiscono con un misto di stupore e smarrimento
L’anziano re accetta le dimissioni e, al termine del colloquio, fa arrestare Mussolini. Alle 22.45 del 25 luglio 1943 l’EIAR annuncia quanto accaduto e dà notizia dell’incarico di formare un nuovo governo dato a Pietro Badoglio. Il ventennio fascista è, almeno in un certo senso, giunto al capolinea e con la parabola di Mussolini capo del Governo, in quell’anno XXI della cosiddetta “era fascista”, si chiude anche la monetazione metallica serie Impero che ha scandito dal 1936, anno dell’apoteosi imperiale del regime, la vita degli italiani.
Curata, per quanto riguarda i modelli (leggi qui un approfondimento), dal grande incisore Giuseppe Romagnoli la serie Impero si rivela – come sempre accade alle monete, del resto, un autentico “specchio della storia”. Basta infatti sfogliare un catalogo prezziario per notare, innanzi tutto, come quella serie di monete inaugurata con due eleganti pezzi in oro (le 50 e 100 lire), tre bellissime monete in argento (da 20, 10 e 5 lire) e il resto in nichel (poi acmonital, da 2, 1 lira, 50 e 20 centesimi) e rame (poi bronzital, da 10 e 5 centesimi) si sia ridotta, in pochi anni, ad appena sei nominali, tutti in metallo non prezioso.
Una marziale medaglia di Francesco Giannone per la Mostra degli artisti italiani in armi che, fra il 1942 e il 1943, fa tappa in città come Berlino, Monaco e Vienna
Delle 2 lire, con data 1943-XXI, la Regia zecca riesce a produrre appena 800.000 pezzi a fronte del picco di quasi 7,8 milioni di esemplari con millesimo 1939, XVII e XVIII. Dell’unità monetaria, invece, la produzione ammonta a 11,5 milioni di pezzi, comunque meno di metà rispetto a quanti – quasi 26 milioni – erano stati battuti nel 1940.
Sono 3.861.000 invece le monete da 50 centesimi con data 1943-XXI, un’inezia se paragonate al 58.100.000 dell’anno precedente, mentre dei 20 centesimi vengono coniati 57.003.000 esemplari rispetto al picco dell’anno 1941-XIX in cui la produzione era stata di 107.300.000 pezzi.
Le ultime monete da due e una lira coniate in acmonital con data 1943-XXI: il 25 luglio 1943 e i fatti seguenti segnano di fatto la fine della serie Impero
Ed eccoci agli spiccioli in bronzital da 10 centesimi dei quali, anche in quell’anno di svolta per la storia italiana, la produzione rimane alta: 25.400.000 pezzi. Caso diverso i 5 centesimi, il cui valore è ormai eroso dall’inflazione galoppante dovuta alle difficoltà della situazione bellica: dalle presse della Regia zecca ne escono infatti soltanto 372.000 esemplari.
Ecco quanto può dirci, a ottant’anni dal 25 luglio 1943, questa veloce panoramica sulla produzione di moneta metallica in Italia in quell’anno: i metalli preziosi sono ormai scomparsi, tesaurizzati come riserva estrema di valore oltre che drenati dal regime stesso con le campagne del tipo “Oro alla Patria”.
Le monete da 50 e 20 centesimi del 1943-XXI: curioso come il profilo dell’Italia modellato da Romagnoli per i 20 centesimi tornerà, con una fiaccola, sulle prime 5 lire repubblicane
La lira ha perduto, dall’inizio del conflitto, gran parte del suo potere d’acquisto e, alla fine delle ostilità, la nostra valuta avrebbe avuto un valore pari ad appena un trentesimo di quello del 1939: una catastrofe monetaria, specie se si pensa che tra l’inizio e la fine della Grande guerra – in quel caso, vittoriosa per l’Italia – il valore della lira si era ridotto ad “appena” un quinto di quello del 1914.
Dopo il 25 luglio del 1943, alla massa già enorme di biglietti di Stato di piccolo valore – da 1, 2, 5 e 10 lire – e alle banconote della Banca d’Italia (che di lì a poco penserà anche a un “cambio della moneta”, leggi qui) si aggiungerà una quantità di cartamoneta di occupazione alleata, le famose Am-lire, che risalirà la Penisola insieme alle divisioni americane “invadendo” anche le tasche, peraltro poverissime, degli italiani e relegando le monete metalliche, specie quelle sotto il valore di una lira, ad un ruolo sempre più marginale.
Gli spiccioli da 10 e 5 centesimi di lira del 1943-XXI: del taglio più basso, ormai quasi privo di valore, vengono coniati solo 372.000 esemplari
E pensare che nell’anno di ingresso dell’Italia nel conflitto, il 1940, la Regia Zecca aveva allo studio addirittura delle nuove monete da 10 e 5 lire, con il ritratto regio in uniforme ed elmetto e, al rovescio, un grande fascio littorio a dominare lo stemma crociato di Casa Savoia. Da allora a quel 25 luglio 1943 – che vede la caduta di Mussolini e l’inizio di una delle fasi più dolorose della storia italiana – sembra davvero passato un secolo.
Per la verità, dopo il 25 luglio 1943 e dopo l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno, la serie Impero vive un’ultima, poco conosciuta pagina di storia nelle officine di Cogne (Aosta), ormai ex pertinenza della Regia Zecca e sotto il controllo della Repubblica sociale italiana.
Uno dei pochissimi esemplati noti dei 10 centesimi 1943-XXI coniati in acmonital dall’officina monetaria di Cogne durante la RSI: un esperimento divenuto una rarità assoluta
Qui viene infatti realizzato un esperimento di moneta in acmonital, valore 10 centesimi, utilizzando materiali creatori della zecca di Roma. A dispetto della coniazione effettuata sotto il controllo della Repubblica di Salò, le raffigurazioni sono le stesse dello spicciolo del Regno, con tanto di ritratto di Vittorio Emanuele III. E, addirittura, verranno in seguito ritrovati degli ulteriori coni con la A come segno di zecca, ma che non risultano mai utilizzati.
Di quella moneta “fantasma” da 10 centesimi 1943-XXI risultano essere invece stato battuti 32 pezzi, dei quali due esemplari si trovano oggi al Museo della Zecca, dieci vennero deformati e altri, in rarissimi casi, sono comparsi sul mercato numismatico come quello qui illustrato, passato in asta Negrini nel 2012.