Nel Museo archeologico nazionale di Firenze sono presenti alcune controverse monete etrusche, verosimilmente “inventate” nella seconda meta dell’800

 

di Stefano Bani | Nel 1723 viene dato alle stampe il primo dei due volumi del De Etruria Regali, opera postuma di Thomas Dempster voluta un secolo prima dal granduca di Toscana Cosimo II per magnificare il Granducato come degno erede di quella civiltà etrusca che aveva dominato l’Italia dalla Pianura Padana fino alla Campania e che aveva dato i natali a Roma. In questa opera, arricchita di centodue tavole, sei sono dedicate a monete etrusche della tipologia dell’aes grave. In massima parte si tratta di monete della zecca di Volterra.

Verso la fine del secolo monsignor Mario Guarnacci e l’abate Luigi Lanzi con la pubblicazione di due libri, relativi alle origini il primo e alla lingua degli Etruschi il secondo, diedero ulteriore impulso a questa disciplina. In ambedue i libri si trovano stampe raffiguranti monete.

Monete etrusche

Fig. 1 | Disegni di monete etrusche tratti: “Falisci” e “Fiesole” dalla Tav. X, “Luni” dalla Tav. XII, “Vetulonia” dalla Tav. XIX di GUARANCCI 1785-1787

Per quanta riguarda lo studio della monetazione etrusca, ancora oggi non facile, si facevano i primi passi con vari errori di attribuzione delle monete alle zecche di emissione. Ad esempio, solo verso meta Settecento il volterrano Riccobaldi Del Bava, basandosi sui dati di provenienza attribuisce correttamente le monete a legenda VELATHRI alla zecca di Volterra.

In precedenza il Giambullari aveva interpretato la legenda come ORISELA che a suo dire voleva significare “moneta di mio padre” con riferimento a Giano. In seguito la legenda fu letta correttamente come VELATHRI, ma assegnata alla città latina di Velletri. In foto (fig. 1) inoltre, possiamo vedere nell’opera di Guarnacci errori di attribuzione di varie monete: ad esempio è attribuita a Fiesole una moneta di Phistelia; una moneta in bronzo di Populonia viene attribuita a Luni, poichè per la consunzione si leggono solo le lettere finali LVNA, infine le monete attribuite a Vetulonia in realtà sono della Valdichiana.

Francesco Carell, nel suo Nummorum Veterum Italiae del 1812, raffigura alcune monete etrusche tra le quali per la prima volta vi compaiono due monete in oro da X assi con testa maschile. Nella prima meta dell’800 nelle opere del livornese Giuseppe Micali e di Francesco Inghirami sono raffigurate ancora monete etrusche.

Fig. 2 | In alto, moneta autenitca di Lucca da 10 assi; in basso, invenzione in oro ispirata dalla moneta lucchese precedente

Gli scavi, effettuati a Vulci, dal principe di Canino Luigi Bonaparte (che saccheggia centinaia di tombe ricche di vasi attici a figure nere e rosse, allora creduti etruschi,ì), le fortunate scoperte del fiorentino Alessandro François che scavò a Chiusi, a Fonte Rotella (dove rinvenne il famoso cratere di Clizia e Ergotimo, che da lui prese il nome) e soprattutto a Vulci, dove fu scoperta latomba dei Saties nella necropoli di Ponte Rotto, con le sue pareti affrescate con raffigurazioni di un episodio della guerra fra Roma e alcune cittè etrusche (e la liberazione di Mastarna ovvero Servio Tullio, uno dei re di Roma) e infine la buonissima riuscita dell’esposizione a Londra di antichità etrusche, fatta dai Campanari di Tuscania, fecero si che l’interesse per lo studio di questo popolo si ampliasse in modo esponenziale.

Soprattutto, pero, con il marchese Carlo Strozzi, fondatore del Periodico di numismatica e sfragistica per la storia d’Italia e collezionista lui stesso, i raccoglitori di monete antiche presero ad avvicinarsi di più alle affascinanti e misteriose monete etrusche. Con il crescere dell’interesse verso questa monetazione, di conseguenza, apparvero le prime falsificazioni e anche l’invenzione di nuovi tipi, come era accaduto per le antichità, basti ricordare le oreficerie create dagli abilissimi fratelli Castellani (che non sfigurano a Villa Giulia accanto agli originali etruschi) o i famosi guerrieri in terracotta che i fratelli viterbesi Ricardi, in realtà non tanto abili, riuscirono tramite un intermediario a vendere al Metropolitan Museum di New York.

Fig. 3 | Figura 13 tratta da PICCIONE 1914

Cosi, anche per le monete, esperti orafi si cimentarono nella creazione di tipi nuovi con alterna fortuna. Ancora oggi alcune di queste monete, per la maggior par­ te pezzi unici, fanno bella mostra di se in musei e collezioni private di tutto il mondo. Nel Museo archeologico nazionale di Firenze sono presenti nove monete, tutte in oro, frutto della fantasia di più o meno abili orafi, che vedremo nei dettagli.

II primo esemplare fu acquistato da tale Palazzini nel 1908. Si tratta di una moneta da 12,5 assi del peso di g 0,75, che presenta al dritto un ippocampo con in alto un delfino, ambedue verso sinistra; in basso XIIV, il segno di valore, tutto entro contorno perlinato e rovescio liscio (fig. 2). A causa di questo acquisto il direttore Milani si trovò coinvolto in una lunga disputa circa l’autenticità della moneta.

Chiaramente questo esemplare unico, che  Matteo Piccione, intermediario per la vendita, dichiarò provenire dai pressi di Cecina, ha tratto ispirazione dalle monete argentee di Lucca con tipi similari. Dopo l’acquisto, quando Milani fece vedere la moneta al noto numismatico Michele Vlasto, egli la dichiaro chiaramente falsa, affermando che aveva in precedenza acquistato dal Piccione una moneta tarantina che aveva alcune analogie con l’esemplare etrusco e che era risultata falsa.

Successivamente Piccione invio al museo una moneta da XX assi con i tipi del polpo che fuoriesce dall’anfora, fra un serpente e una clava (fig. 3), dichiarando che era stata trovata insieme alla moneta in oro con l’ippocampo, che il Milani dichiarò probabilmente falsa. Per questa moneta e tutte le successive, ad esclusione di quella di Vetulonia, esposta al Museo Isidoro Falchi, sono state fatte analisi con la termofluorescenza da parte del CNR di Pisa.

La seconda e la terza moneta, ambedue entrate a far parte del medagliere nel 1909, sono quella con segno di valore C e rovescio liscio di g ,033 e quella da X assi con ancora fra lettera Ɔ e segno di valore X e rovescio liscio di g 0,59 (fig.4). La prima fu proposta da Attilio Valentini di Roma e vista la modica cifra richiesta, lire 20, il Milani ne decise l’acquisto. Alle analisi con la fluorescenza si è rivelata una realizzazione moderna. Fergan Dal Molin, di Roma, è il venditore della moneta con ancora che dichiarò di averla ricevuta da parenti di Arezzo.

Figg. 4-5 | Assi fusi attribuiti alla Valdichiana (Arretium?) e invenzioni ispirate alla monetazione della serie aes grave della Valdichiana

La moneta in questione apparve subito dubbia al Milani che si dichiarò pronto però ad acquistarla a patto di pagarla un prezzo modico, e cosi nel 1909 essa entrò a far parte delle collezioni numismatiche Museo archeologico nazionale di Firenze. Anche questa moneta, ispirata alla monetazione enea, fusa e coniata, attribuita alla Valdichiana, e chiaramente di fattura moderna. II quarto esemplare in esame fu acquistato nel 1910 da Umberto Parricchi di Roma, il quale dichiarò che essa faceva parte delle antichità della sua famiglia originaria di Cortona. La moneta presenta un cratere e intorno delle lettere e il segno di valore X, e rovescio liscio, di g 0,56 (fig. 5). Anche per questa moneta ispirata dalla serie di aes grave attribuita alla Valdichiana, Milani si comportò come in precedenza e l’acquistò per una modica somma. Anche questa e indiscutibilmente una realizzazione moderna.

Ho lasciato per ultimi alcuni esemplari interessanti. La prima moneta presenta al dritto una testa di guerriero, con elmo conico, volto a destra e dietro la legenda VATL, il tutto entro contorno perlinato e al rovescio un tridente accostato da due delfini entro contorno perlinato, del peso di g 4,05 (fig. 6). Due esemplari in argento, uno con rovescio liscio e uno identico a questo, apparvero nella vendita all’asta della collezione Jameson esitata a Parigi dal 1913 al 1932, ai numeri 2379 e 2380. Da notare che in questa vendita apparvero altre monete etrusche di pura fantasia, fra le quali il pezzo da 50 assi con testa frontale di Gorgone.

Fig. 6 | Moneta in oro “di fantasia” presente da lungo tempo nelle collezioni del Museo archeologico nazionale di Firenze

La moneta in oro fu riproposta una seconda volta al Milani per l’acquisto nel 1901, insieme ad un gruppo di monete populoniesi in argento e bronzo. II Milani, che in precedenza aveva espresso seri dubbi sull’autenticità della moneta, inizialmente si mostrò contrario all’acquisto, tanto che il Mannelli si sorprese e si dichiarò pronto a presentargli la persona che l’aveva trovata e gliela aveva venduta.

Seguirono diverse trattative, ma quando anche Isidoro Falchi visiono la moneta e la dichiaro una “mistificazione”, il Mannelli decise di cederla per il prezzo offertogli dal Milani. La moneta e stata inventata prendendo il dritto della semioncia enea e ilrovescio dei sestanti di Vetulonia (fig.7). In effetti Vetulonia ha emesso solo moneta bronzea, e gli esemplari in argento trovati dal Falchi durante gli scavi sono della zecca populoniese.

Questi cinque esemplari sopra citati non hanno avuto “fortuna” e quindi sono rimasti fortunatamente pezzi unici. Purtroppo, invece, gli esemplari che vedremo ora da più di un secolo e mezzo vengono offerti e venduti, nella maggioranza dei casi, come originali attribuiti alla zecca di Populonia. Proprio di recente sono stati venduti due esemplari, uno da 50 e uno da 25 assi. Evidentemente il fascino di queste “monete” continua ad attrarre i collezionisti.

Fig. 7 | A sinistra, dall’asta della collezione Jameson, esi­tata nel 1913 a Parigi, nella quale furono vendute alcune monete etrusche frutto di fantasia. Ai nn. 2379 e 2380 si notano due monete in argento at­tribuite a Vetulonia, una con rovescio liscio e l’altra uguale all’esemplare in oro presente nel Museo di Firenze (vedi Fig. 6); a destra, semioncia di Vetulonia

Si tratta dei tipi con segni di valore XIIV, XXV e /|\ con testa di leone a fauci spalancate (fig. 8). II primo entrato a far parte della collezione numismatica del Museo archeologico nazionale di Firenze fu acquistato dall’allora regio antiquario delle Gallerie di Firenze Gian Francesco Gamurrini nel 1867, con provenienza generica dalla “Maremma” ma acquistato a Pistoia. Si tratta di un esemplare da 25 assi.

Alcuni anni dopo pero Gamurrini, nel fascicolo II del 1874 del Periodico di numismatica e sfragistica per la storia d’ Italia, diretto dal Marchese Carlo Strozzi (fig. 9), nell’articolo Le monete d’oro etrusche e principalmente di Populonia dichiara la moneta comprata a Lucca. È interessante notare che in questo articolo anche gli altri due esemplari descritti, il /|\ e il XIIV della collezione Strozzi, furono acquistati ambedue sul mercato antiquario, il primo a Pisa nel 1870 e l’altro, sempre a Pisa, due anni dopo.

Gli altri due esemplari presenti nel medagliere, il /|\ assi e il XXV furono donati al museo all’allora soprintendente Antonio Minto, nel 1933, dall’orafo e commerciante di antichità etrusche Lorenzo Mannelli di Campiglia Marittima.

Fig. 8 | Presunte monete in oro con segni di valore /|\, XXV e ||<

Alle analisi queste monete sono risultate contenere una quantità alta di oro, rispetto alle monete etrusche provenienti da scavo archeologico. Un ultimo esemplare da XIIV assi e entrato a far parte recentemente delle collezioni fio rentine, donato da due signori di Modena che dichiararono di averlo trovato sulle sponde di un fiume, ma chiaramente la moneta è di fattura moderna.

Italo Vecchi nel suo Etruscan coinage ha censito 30 esemplari del tipo da il /|\ assi, 93 del tipo da XXV e 9 del tipo da XIIV per un totale di 132 esemplari, dei quali nemmeno uno ha provenienza certa. Oltre ai citati esemplari censiti, periodicamente listini di vendita di commercianti numismatici e case di vendite all’asta continuano a offrire tali monete.

I motivi per i quali ritengo che queste monete siano frutto della fantasia di un abile orafo ottocentesco sono i seguenti: nonostante l’alto numero degli esemplari, nessuna di queste monete proviene da uno strato archeologico o da un rinvenimento ufficiale o ufficioso, mentre per altre tipologie con numero inferiore di esemplari sono stati fatti dei ritrovamenti. In tutti i musei della Toscana, a eccezione di Firenze (e abbiamo visto la provenienza da acquisto o donazioni), questa tipologia è assente.

L’anomalia dei valori XIIV e il /|\ non si riscontra in altre monete in oro etrusche; sono noti solo i valori X e XXV con testa maschile. Anche i valori di /|\ e )I(, con testa di Gorgone il primo e con provenienza dichiarata da Monte Pitti e testa di leone il secondo, sono stati riconosciuti entrambi come invenzioni moderne. Generalmente i tipi con valori piu alti, quindi /|\ e XXV, i più appetibili per i collezionisti, sono emessi in numero inferiore a quelli dei valori pùu bassi, mentre in questa tipologia avviene il contrario.

Monete etrusche

Fig. 9 | Tavola III tratta da STROZZI 1868-1873

È un dato certo che alla fine dell’800 e ai primi del ‘900, nella zona del Campigliese era fiorente un commercio di antichità etrusche comprendente anche pastiches e falsi e, soprattutto, commercio di monete etrusche. II fantomatico “ripostiglio di Campiglia Marittima” del 1932, disperso subito sul mercato antiquario, del quale si dice facessero parte monete in oro etrusche con testa di leone e altre, fra le quali l’esemplare con testa femminile da XXV, probabilmente anche questo di fattura moderna, ne è una riprova.

Anche gli esemplari citati nel libro dell’amico e studioso Italo Vecchi, con provenienza da Populonia, in realtà sono stati acquistati sul mercato antiquario principalmente a Pisa. Spesso la provenienza era fittizia, basti ricordare il caso della moneta da XX assi con calamaro e anfora per anni attribuita a Pisa e che va chiarito, una volta per tutte, che è una moneta emessa dalla zecca di Populonia. A mio avviso, Pisa non ha mai emesso moneta in periodo etrusco. Nelle pubblicazioni edite dal Settecento alla prima meta dell’Ottocento non figurano tali monete né notizie di rinvenimenti, nonostante il loro numero non sia esiguo.

Nonostante l’iniziale rarità della tipologia, come già aveva notato anche Luigi Tondo, fa riflettere il fatto che, con soli quattro esemplari noti, la serie fosse già completata. È molto probabile che i due esemplari donati dall’orafo Lorenzo Mannelli nel 1933 facessero parte anch’essi dell’inattendibile “ripostiglio” del 1932 di Campiglia Marittima, che, a mio avviso, è proprio il luogo dove nacquero queste “mistificazioni”.

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