Due romanzi ricchi di citazioni numismatiche, due opere nelle quali le monete sono funzionali alla letteratura e allo scopo comunicativo degli autori

 

di Vittorio Mancini | Il tema degli intrecci tra numismatica e letteratura non è inedito, e gli scritti sull’argomento non sono rari. In tali lavori, sia pure con diverso grado di approfondimento, in tanti si sono esercitati a rintracciare citazioni numismatiche all’interno di opere letterarie. A volte questi tentativi sono stati condotti limitandosi alla mera riproposizione di passi nei quali erano state nominate delle monete; altre volte, invece, si è andati oltre cercando di capire, per esempio, se c’era coerenza tra i tondelli ricordati e il periodo di svolgimento dei fatti narrati, oppure se si trattava di richiami con riferimenti specifici a certe monete o se, più semplicemente, le parole “quattrini”, “soldi” o “denari” o altre ancora fossero utilizzate come generici sinonimi di una certa quantità di ricchezza.

I medesimi argomenti sono sempre più spesso presenti anche in articoli, saggi o studi non su carta stampata ma online, su riviste pubblicate nel web (clicca qui per un nostro precedente approfondimento), oppure ancora nei post che compaiono in vari forum, blog e gruppi che ormai popolano la rete e la riempiono di contenuti di ogni genere.

Nel presente articolo verrà affrontato il tema delle citazioni numismatiche, assai numerose, presenti ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni e in Signora Ava di Francesco Jovine. Sulle monete nel romanzo di Manzoni esiste già una discreta bibliografia che comprende, tra gli altri, anche articoli apparsi sia su riviste di numismatica che su periodici afferenti ad altre discipline e pubblicati da facoltà universitarie. Molto meno battuto, se non addirittura inedito, è invece il campo della ricerca e della discussione sulle occorrenze numismatiche rintracciabili nel libro dello scrittore molisano. Eppure questi due capolavori della letteratura italiana hanno molto in comune tra essi, tanto che, non a caso, il romanzo di Jovine è stato a volte ribattezzato dalla critica come “manzoniano”.

Alessandro Manzoni, uno dei padri della nostra letteratura, del quale quest'anno si ricorda il 150° anniversario della morte; a destra, un'edizione con illustrazioni di Francesco Gonin de "I promessi sposi"
Alessandro Manzoni, uno dei padri della nostra letteratura, del quale quest’anno si ricorda il 150° anniversario della morte; a destra, un’edizione con illustrazioni di Francesco Gonin de “I promessi sposi”

In entrambe le opere, in particolare, c’è un indissolubile intreccio tra la finzione narrativa e la storia reale, perché anche in Signora Ava trova evidente applicazione quella che Francesco d’Episcopo – attento critico e promotore della diffusione delle opere di Jovine – ha definito “felice formula manzoniana della storia mista all’invenzione”. In altri termini, in tutti e due i romanzi quelle che sono le “storie”, con l’iniziale minuscola, ideate dagli autori e da essi romanzate, si intersecano sistematicamente con episodi e avvenimenti realmente accaduti e registrati nella “Storia” con la esse maiuscola.

Così nel capolavoro manzoniano la tormentata vicenda del contrastato matrimonio di Renzo e Lucia si dipana nel mezzo di alcuni eventi che segnarono il Ducato di Milano negli anni di svolgimento della narrazione: la carestia, la guerra, la peste. Nel romanzo di Jovine – che Goffredo Fofi ha definito “il Gattopardo dei poveri” (dichiarando poi anche di preferire quest’ultimo al primo) – il mondo sospeso e immobile della comunità contadina e di una famiglia di “notabili” di Guardialfiera, un piccolo paese della Provincia di Molise, viene invece travolto dall’irrompere della grande Storia, in questo caso rappresentata dal periodo di passaggio tra la monarchia borbonica e quella sabauda, dagli scontri tra i due eserciti, dal passaggio dei Mille e dalle scorrerie dei briganti.

Francesco Jovine (1092-1950), scrittore molisano e autore del romanzo storico "Signora Ava": anche quest'opera, come quella manzoniana, è densa di citazioni numismatiche tutte da scoprire
Francesco Jovine (1092-1950), scrittore molisano e autore del romanzo storico “Signora Ava”: anche quest’opera, come quella manzoniana, è densa di citazioni numismatiche tutte da scoprire

E, così come gli eventi, anche i personaggi reali della Storia interagiscono con quelli ideati da Manzoni e Jovine. A volte ciò accade direttamente, come per esempio quando il cardinale Federigo Borromeo rimprovera bonariamente ma con fermezza Don Abbondio ne I promessi sposi per il suo scarso coraggio. In altri casi invece la compresenza resta più sullo sfondo, come quando Don Matteo Tridone – personaggio chiave e centrale di Signora Ava – annota a un certo punto sul suo taccuino: “13 novembre successa sciarra” (cioè “lite” o “discussione”, NdA) “a tavola per un certo Gariobaldo che non so chi è”. Tralasciando i molti altri aspetti che accomunano i due romanzi, qui ci si vuole soffermare in particolare su uno di essi: la massiccia presenza in entrambi di riferimenti diretti ad alcune monete.

Monete che, naturalmente – e non poteva essere che così, vista appunto la grande attenzione prestata dai due Autori all’inquadramento storico delle rispettive opere – sono assolutamente coerenti con periodo e ambientazione delle vicende narrate: i più di trenta richiami manzoniani a berlinghe, parpagliole, scudi, reali, ducatoni e quattrini (anche se citati, questi ultimi, più in senso generico che effettivo) forniscono un quadro piuttosto chiaro e sufficientemente esaustivo del circolante nel Ducato di Milano tra il 1628 e il 1630; con qualche citazione – perfettamente spiegabile comunque – anche di tipologie monetali tipiche di altre zone, come i giuli (evidentemente pertinenti alla monetazione pontificia) che Manzoni fa distribuire ai contadini da parte del cardinale Borromeo.

Piastre, tornesi e soprattutto carlini e ducati, invece, vanno a costituire il “tesoretto” delle oltre quaranta citazioni numismatiche presenti in Signora Ava, alle quali si aggiunge pure qualche sporadica menzione di soldi e quattrini, anche se non riferita alle omonime monete.

L’obiettivo di questo scritto non è quello di censire e recuperare tutte le citazioni, anche perché – almeno per quanto riguarda I promessi sposi – esiste già una bibliografia abbastanza articolata sull’argomento. Quello che qui si mira a mettere in luce è la funzione dei richiami numismatici all’interno dei due romanzi. Si vuole provare insomma a dare una risposta a domande del tipo: perché Manzoni e Jovine hanno attinto così copiosamente e in modo così attento al mondo della numismatica? Che ruolo hanno le citazioni di monete milanesi e napoletane nelle due storie?

Ad avviso di chi scrive, una cosa è certa: i tanti passaggi numismatici non rappresentano un “vezzo” dei due autori e non sono uno sfoggio di erudizione. Essi rappresentano invece dei veri e propri strumenti di lavoro, funzionali alle storie raccontate e che avevano uno scopo ben preciso: da una parte (Manzoni) conferire precisione ancora maggiore alla vicenda narrata e alla sua attendibilità; dall’altra (Jovine) contribuire a delineare con maggior chiarezza il carattere e a volte la psicologia di alcuni dei personaggi.

Quali berlinghe per il romanzo capolavoro del Manzoni?

Prima di procedere occorre fare una premessa a proposito di quella che è la prima moneta ricordata ne I promessi sposi: la berlinga. Siamo nel capitolo VI, nel momento in cui Renzo va a trovare il suo amico Tonio per chiedergli di aiutarlo nel proposito di vincere la renitenza di Don Abbondio a celebrare il matrimonio con Lucia, mettendolo di fronte a un fatto compiuto. Per riuscirci gli occorrono due testimoni e, per convincere Tonio (e il fratello Gervaso) a dargli l’aiuto di cui ha bisogno, fa leva su un debito che l’amico ha contratto da tempo proprio col curato e che non sa come pagare: “Tu hai un debito di venticinque lire col signor curato, pel fitto del suo campo che lavoravi l’anno passato…”.

E' estremamente rara la berligna milanese coniata da Carlo V d'Asburgo (1535-1556) con al D/ aquila bicipite con corona imperiale e caricata dello stemma di Spagna e al R/ sant’Ambrogio a cavallo, con lo staffile nella mano destra
E’ estremamente rara la berligna milanese coniata da Carlo V d’Asburgo (1535-1556) con al D/ aquila bicipite con corona imperiale e caricata dello stemma di Spagna e al R/ sant’Ambrogio a cavallo, con lo staffile nella mano destra

Quando però Tonio si reca da Don Abbondio per mettere in pratica l’impresa, utilizza un termine diverso per indicare le medesime monete (la citazione, stavolta, è tratta dal capitolo VII): “[…] venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove”; E, poco oltre, ne fa anche la descrizione: “son venticinque berlinghe nuove, di quelle col Sant’Ambrogio a cavallo”. Dunque le venticinque “lire” del debito vengono saldate con altrettante “berlinghe”. Due modi diversi di chiamare la stessa moneta?

La lira, fin da una riforma introdotta dai tempi di Carlo Magno, aveva il valore di 20 soldi. Di conseguenza anche la berlinga doveva avere lo stesso valore. In effetti, in molti documenti – soprattutto grida – del tempo appena antecedente il periodo di ambientazione della storia manzoniana, le berlinghe venivano ragguagliate esattamente al valore di una lira. Inoltre erano state coniate diversi anni prima – cioè all’epoca di Carlo V – delle berlinghe che, nel campo del rovescio, presentavano realmente l’impronta del aant’Ambrogio a cavallo.

Il problema nasce però dalla circostanza che nell’edizione più nota de I promessi sposi – quella del 1840 arricchita da bellissime incisioni opera di Francesco Gonin – le parole di Tonio sono accompagnate appunto da una illustrazione che sembra mostrare un nominale diverso: la moneta da 10 soldi. Dunque di valore pari alla metà della berlinga da una lira.

L'illustrazione di Francesco Gonin tratta dall'edizione 1840 de "I promessi sposi", una illustrazione che sembra mostrare una moneta da 10 soldi di valore pari alla metà della berlinga da una lira
L’illustrazione di Francesco Gonin tratta dall’edizione 1840 de “I promessi sposi”, una illustrazione che sembra mostrare una moneta da 10 soldi di valore pari alla metà della berlinga da una lira

Come si può chiaramente notare dal confronto tra le due immagini, quella presentata sul romanzo è proprio una moneta da 10 soldi di Filippo III, anch’essa con Sant’Ambrogio a cavallo e con la legenda FORTITVDO DE CAELO che sovrasta la figura, esattamente come nell’incisione di Gonin.

Dunque Manzoni commise un errore nel chiamare “berlinghe” queste monete? Sull’argomento sono stati versati fiumi di inchiostro e i pareri sono discordanti ma, ai fini di questo lavoro, la questione non rileva. Quello che preme sottolineare è che, sia che avesse il valore di una lira, tanto che corrispondesse alla moneta pari alla sua metà, la berlinga citata da Manzoni adempie perfettamente allo scopo suo e di tutti gli altri richiami numismatici presenti nel romanzo: conferire coerenza al racconto.

Per chiarire meglio il concetto, si riportano qui di seguito altri passi contenenti occorrenze numismatiche. La prima citazione è tratta dal capitolo XVII: Renzo, dopo i disordini di Milano, si trova nella condizione di essere ricercato ed è costretto alla fuga per cercare di riparare “all’estero”; cosa che, a quell’epoca, significava passare l’Adda per raggiungere la sponda bergamasca e quindi trovarsi in territorio posto sotto la giurisdizione veneziana. Quando riesce nell’impresa ha la necessità di ricompensare il traghettatore che lo ha aiutato a mettersi in salvo, ma anche di ingraziarselo per evitare che possa riferire ad altri del suo passaggio: “Toccano finalmente quella riva; Renzo vi si slancia; ringrazia Dio tra sé, e poi con la bocca il barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che, attese le circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo […]”.

Un esemplare milanese da 10 soldi di Filippo III (1598-1621) con al rovescio Sant’Ambrogio a cavallo e legenda FORTITVDO DE CAELO: ecco identificata la moneta che appare nell’incisione di Gonin
Un esemplare milanese da 10 soldi di Filippo III (1598-1621) con al rovescio Sant’Ambrogio a cavallo e legenda FORTITVDO DE CAELO: ecco identificata la moneta che appare nell’incisione di Gonin

Ancora una berlinga, dunque. Ma da una lira o da 10 soldi? Ai fini di questo lavoro, la questione non rileva. Molto più avanti nella storia, scampato non solo alla cattura, ma anche alla peste, Renzo fa ritorno in territorio di Milano e decide di rientrare in città per cercare notizie di Lucia. Arrivato nei pressi del varco di Porta Nuova, però, si trova a dover fare i conti con una guardia che gli intima l’alt (citazione dal capitolo XXXIV): “[…] non venendo nessuno a richiudere il cancello, gli parve tempo, e ci s’avviò in fretta; ma la guardia, con una manieraccia, gli gridò: «olà!» Renzo si fermò di nuovo su due piedi, e, datogli l’occhio, tirò fuori un mezzo ducatone e glielo fece vedere. Colui, o che avesse già avuta la peste, o che la temesse meno di quel che amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che glielo buttasse; e vistoselo volar subito a’ piedi, sussurrò: «va innanzi presto»”.

Il ducatone era un grosso nominale d’argento che aveva il valore di circa 5 lire. Dunque, il mezzo ducatone che Renzo getta alla guardia corrispondeva a 2 lire e mezzo, cioè a 2 lire 10 soldi, una somma pari al quintuplo della “berlinga” disegnata dal Gonin o a due volte e mezzo quella di Carlo V illustrata in precedenza.

Ma non è finita qui. Nel capitolo XXXIII, Manzoni presenta un Don Rodrigo che si è appena accorto di aver contratto la peste: il pericolo è grave perché sa bene che o morirà oppure sarà condotto via dai monatti, perdendo così prestigio e ricchezze. Allora si rivolge al Griso, il fidato capo dei suoi bravi, al quale chiede di recarsi a chiamare un medico compiacente che forse avrebbe potuto aiutarlo.

Griso tradirà poi il suo padrone, perché andrà invece a denunciare la sua condizione, ma vale la pena di leggere le parole indirizzategli da Don Rodrigo: “«Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?» «Lo so benissimo» «È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa la cosa per bene, che nessun se n’avveda».

Ne "I promessi sposi", capolavoro della letteratura italiana, tra le monete milanesi citate dal Manzoni appare anche il ducatone: eccone un bell'esemplare a nome di Filippo III (1598-1621)
Ne “I promessi sposi”, capolavoro della letteratura italiana, tra le monete milanesi citate dal Manzoni appare anche il ducatone: eccone un bell’esemplare a nome di Filippo III (1598-1621)

“Quattro, sei scudi per visita” o anche di più: una somma enorme se si considera che ogni singolo scudo aveva un valore praticamente corrispondente al ducatone, cioè a 5 lire. A questo punto il discorso dovrebbe apparire più chiaro se si pongono a confronto le tre situazioni descritte: quando Renzo deve pagare la discrezione del barcaiolo che lo ha aiutato a mettersi in salvo gli sborsa una berlinga, cioè mezza lira o una lira a seconda dell’interpretazione che si assegna al termine. Quando però deve praticamente corrompere la guardia che inizialmente gli impedisce il rientro a Milano deve dare di più, e tira fuori un mezzo ducatone, vale a dire poco più di due lire e mezzo.

Entrambe però sono somme troppo piccole se si vuol fare il disperato tentativo di Don Rodrigo di sottrarsi al destino riservato agli appestati; così per cercare di comprare la complicità del medico arriva a promettere una cifra pari a 20 o 30 lire o ancora maggiore (quattro… sei scudi… di più se ne chiede).

Lette così, queste e le altre citazioni numismatiche ne I Promessi Sposi rivelano allora davvero la loro funzione: erano (e sono) uno straordinario ed efficacissimo strumento al servizio della scrittura, in grado di conferire alla storia, pur inventata, una grande credibilità.

Signora Ava di Fracesco Jovine: spigolatorure numismatiche

Anche in Signora Ava i richiami numismatici sono al servizio della penna dello scrittore, ma con uno scopo diverso: non è tanto la precisione ‘storica’ che interessa a Jovine (comunque ottenuta dalla diligenza abbastanza accurata delle citazioni) quanto quella ‘psicologica’ dei personaggi. Qualche esempio può aiutare a chiarire meglio il concetto.

Uno dei personaggi chiave del romanzo è Pietro Veleno, un contadino servo della famiglia De Risio. Come tutti quelli della sua posizione sociale, è piuttosto fatalista e quasi rassegnato alla sua situazione, anche se poi nella seconda parte del romanzo si troverà a mutare la sua condizione e a passare da un monotono e, appunto, fatalista immobilismo, a una vita d’azione per lui inimmaginabile fino a poco prima. Quando viene presentato dall’autore, però, nella prima parte della storia, viene così descritto: “La cosa non piaceva veramente neanche a Pietro: ma Pietro ubbidiva. I suoi padroni che gli davano pane e cinquanta ducati l’anno potevano ordinargli quello che volevano: Pietro ubbidiva”.

Dalla letteratura del XIX a quella del XX secolo, Francesco Jovine in "Signora Ava" cita i preziosi ducati in uso nel Regno delle Due Sicilie: ecco il massimale della serie, quello da 30 ducati qui nella versione del 1831
Dalla letteratura del XIX a quella del XX secolo, Francesco Jovine in “Signora Ava” cita i preziosi ducati in uso nel Regno delle Due Sicilie: ecco il massimale della serie, quello da 30 ducati qui nella versione del 1831

Era comunque un personaggio portato per natura all’ubbidienza servile nei confronti dei padroni; ma quei cinquanta ducati ricordati da Jovine diventano, nel contesto narrativo, un mezzo per rafforzare e quasi “giustificare” questo suo aspetto psicologico.

Altro personaggio centrale è Don Matteo Tridone, povero curato di campagna che, a differenza dei “colleghi” preti della curia, è costretto a fare quotidianamente i conti con una feroce povertà che rende la sua condizione assai simile a quella dei contadini del paese, e che perciò lo costringe allaquasi perenne ricerca di un po’ di denaro per sbarcare il lunario.

Le citazioni numismatiche che lo riguardano, perciò sono tante. Qui se ne riportano solo alcune, chiarificatrici rispetto al discorso che si sta portando avanti. Alcuni uomini del paese si divertono a prenderlo un po’ in giro e a farlo arrabbiare; niente di meglio, per farlo rabbonire, che regalargli una moneta alla fine della celia: “I mariti, i padri, erano tutti amici di Don Matteo e non mancavano mai d’invitarlo nelle loro scampagnate per divertirsi alle sue uscite bizzarre, per farlo arrabbiare e per rabbonirlo poi con una bevuta o un carlino”.

Quando un interlocutore ricorda a Don Matteo che stava per dimenticare di chiedergli di celebrare la solita messa in suffragio del padre, il curato – pensando al rischio corso di perdere quanto avrebbe guadagnato con quella celebrazione – lo rimprovera con sincera schiettezza: “Dunque Don Matteo, ho dimenticato, la santa memoria di mio padre mi perdoni, ho dimenticato di fargli dire la messa funebre per oggi, anniversario della sua morte. Don Matteo ebbe un moto di dispetto: perbacco è vero. […] Era una messa che gli fruttava un ducato e l’aveva sempre detta lui; ricordò che era senza un soldo e il rimprovero gli uscì fluente e sincero dalla bocca […]”.

Dieci grana, un dodicesimo di piastra, ossia un carlino: questa la monetina d'argento più volte citata dallo scrittore molisano nella sua opera "Signora Ava" pubblicata in prima edizione nel 1942
Dieci grana, un dodicesimo di piastra, ossia un carlino: questa la monetina d’argento più volte citata dallo scrittore molisano nella sua opera “Signora Ava” pubblicata in prima edizione nel 1942

Ben più lieto è il suo spirito in un momento in cui si ritrova ad avere in tasca una cifra per lui assolutamente non abituale: aveva ricevuto una discreta somma dal vescovo per alcune celebrazioni effettuate ma, soprattutto, era riuscito finalmente a riscuotere un vecchio debito da un arciprete che lo aveva fatto penare tantissimo prima di rimborsarlo: “Lo spirito di Don Matteo era stato lieto tutta la mattina: aveva in tasca cinque ducati di messe che Monsignor Vescovo gli aveva dati insieme con la lettera quando era andato a congedarsi. […] Bel sole, buona gente, disse Don Matteo passando per il Tratturo, che in quel momento era attraversato da porcari che si dirigevano verso la Puglia. […] Continuò allegro la marcia. Ad un tratto fu percosso da un pensiero: quarantacinque ducati e cinque fanno cinquanta ducati. Don Matteo non era mai stato tanto ricco: cinquanta ducati in una volta poteva averli solo per merito di Don Girolamo Fabiano, curato-arciprete di Palata che per un anno intero l’aveva tenuto senza un tornese, portandolo a spasso con promesse e rinvii”.

Il carlino che lo fa rabbonire dopo gli scherzi dei compaesani, il ducato quasi perso per la mancata celebrazione della messa che lo fa arrabbiare e quelli ben più numerosi che, tintinnando nella sua tasca, lo fanno stare “lieto tutta la mattina” e gli fanno pensare “bel sole, buona gente” mentre continua “allegro la marcia” verso casa non sono solo semplici citazioni numismatiche. Non rappresentano soltanto un dettaglio preciso che dimostra la cura certosina di Jovine nel raccontare la storia.

Un tornese in rame, uno "spicciolo" di ben poco valore e, per questo, citato nel romanzo come sinonimo di una minima quantità di denaro, non certo sufficiente a garantire la sopravvivenza nè tanto meno la ricchezza
Un tornese in rame, uno “spicciolo” di ben poco valore e, per questo, citato nel romanzo come sinonimo di una minima quantità di denaro, non certo sufficiente a garantire la sopravvivenza nè tanto meno la ricchezza

Sono in realtà come dei piccoli ma fondamentali tratti di pennello con i quali lo scrittore molisano è riuscito a dipingere il carattere e la psicologia dei suoi personaggi. Don Matteo non è una persona avida: è un povero. E come capita spesso a tanti poveri si affanna per il denaro: non per diventare ricco, ma semplicemente per sopravvivere.

Anche i personaggi secondari del romanzo, però, sono “caratterizzati” da Jovine con citazioni numismatiche. Emblematicamente si può ricordare qui la descrizione dello “scrivano”, uno dei componenti della banda del Sergentello, cioè di un gruppo di sbandati dell’esercito borbonico, all’interno del quale svolgeva anche la funzione di barbiere. Attività questa che gli permetteva di mettere qualche moneta da parte e di accumulare così un suo personale gruzzolo.

E la descrizione che Jovine fa del rapporto di questo personaggio col suo “tesoro” restituisce al lettore un disegno perfetto del relativo carattere, senza alcun bisogno di dedicargli descrizioni ulteriori: “Lo scrivano li radeva con un’abilità di barbiere consumato, con mossette minute e precise, chiacchierando continuamente con una voce sorda e esile di zanzara. Si faceva pagare un carlino a barba e accumulava delle sommette che poi andava a nascondere, insieme con quello che gli toccava del bottino, in luoghi misteriosi, nelle querce incavate, nelle spaccature delle rocce.

Aveva un quadernino sul quale annotava l’esatta posizione dei suoi forzieri con disegni bizzarri e richiami di cifre e di lettere che solo lui capiva. Faceva così perché i suoi compagni, dopo avergli dato i quattrini per i suoi minuti servizi, si divertivano a rubarglieli per godersi lo spettacolo delle sue furie, dei suoi strilli, e delle grosse bestemmie tanto sproporzionate alla sua voce. Lo scrivano voleva prendere moglie appena finita la guerra. Il suo peculio sotterrato era chiamato dai suoi compagni «la dote». Il Lamor si radeva da sé, ma si faceva pettinare ed arricciare dallo scrivano, al quale regalava di tanto in tanto un ducato”.

Ulteriori citazioni di monete dai due romanzi sarebbero ancora tante. Ma risulterebbero anche superflue, visto che l’obiettivo che si voleva raggiungere con questo lavoro era un altro. La speranza è di esserci riusciti; e magari di aver contribuito a stimolare rinnovata curiosità da parte dei lettori verso i due capolavori. Ci si augura, insomma, di aver fornito una nuova chiave di lettura sia de I promessi sposi che di Signora Ava.

Ma l’auspicio è anche quello di aver portato un ulteriore tassello all’idea che la numismatica sia non solo una scienza per addetti ai lavori, ma anche una disciplina ausiliaria di altre importanti materie solo apparentemente distanti da essa. Letteratura compresa.